Fres-co Spready è un dispenser integrato per il settore alimentare (ma non solo) che si distingue per praticità, sicurezza, maneggevolezza e sostenibilità. Una confezione utile e leggera, studiata per mettere d’accordo consumatori tradizionali e utilizzatori più moderni.
L’innovativa soluzione – ottenuta con un laminato duplice, semplificato ma molto efficace, composto unicamente da film di polietilene – è frutto del lavoro del Team R&D di Goglio e risulta competitiva sia dal punto di vista economico che del servizio offerto: garantisce infatti la perfetta conservazione dell’alimento, proteggendolo da umidità e ossigeno grazie all’impiego di un’esclusiva laccatura barriera.
Pensato per il formaggio grattugiato, Fres-co Spready è versatile e può essere applicato a diversi prodotti alimentari, come le guarnizioni per i dolci, le spezie o la farina di mais per la polenta, oltre ad altri settori non food (sementi, concimi o prodotti granulari da spargere).
Nella parte superiore, sotto a una protezione igienica e sicura, Goglio ha realizzato due fori che servono per dosare e spargere il prodotto contenuto senza la necessità di dispositivi ausiliari. Grazie alla sagomatura della confezione, che si traduce in una comoda impugnatura, l’utilizzatore può inclinare il pack e spargere il prodotto sul piatto o nella ricetta in modo uniforme, senza sprechi e senza sporcare.
La busta può inoltre essere richiusa in modo sicuro: il formaggio può essere conservato fino al successivo utilizzo senza ricorrere alle tradizionali mollette o alle richiusure in plastica.
Fres-co Spready è riciclabile e rilavorabile, in quanto deriva da un’unica famiglia di materiali. Soddisfa inoltre i requisiti di sostenibilità poiché la confezione vuota pesa circa il 50% in meno di quelle attualmente presenti sul mercato, permettendo così un notevole risparmio di materia prima. Un’ulteriore conferma degli evidenti vantaggi del packaging flessibile rispetto al packaging tradizionale: minori costi di stoccaggio e trasporto prima del riempimento e di smaltimento dopo l’utilizzo.
Fres-co Spready è il prodotto firmato Goglio che ha permesso all’azienda comasca di vincere l’Oscar dell’Imballaggio 2016, un’edizione dedicata interamente al tema della sostenibilità. È un dispenser integrato per il settore alimentare (ma non solo) che si distingue per praticità, sicurezza, maneggevolezza e sostenibilità. Per leggere tutto: https://www.italiagrafica.com/oscar-dellimballaggio-i-vincitori-2016/
È stato stipulato il 19 dicembre 2016 l’atto di fusione per incorporazione di Goglio Cofibox S.p.A. in Goglio S.p.A, il cui progetto era stato approvato dai rispettivi Consigli di Amministrazione.
Entrambe le società, parte del Gruppo internazionale di cui Goglio S.p.A. è capogruppo, operano nel settore del packaging con una reciproca collaborazione già attiva nella produzione e nei servizi generali.
Da decenni presente sul mercato Goglio Cofibox, con sede a Cadorago (Como), è cresciuta con il confezionamento del caffè e ha diversificato il proprio business, sviluppando la produzione di etichette e sleever per bottiglie di acqua minerale e bevande.
L’operazione è finalizzata a ottenere una razionalizzazione della gestione economica, finanziaria e amministrativa e permetterà di raggiungere economie di scala anche attraverso l’unificazione degli organi amministrativi e di governo e controllo.
Tale fusione consentirà la centralizzazione della funzione acquisti, la razionalizzazione organizzativa principalmente in ambito Environment, Health & Safety, amministrazione e controllo, gestione dei sistemi informatici, ricerca e sviluppo nonché della gestione della qualità.
Goglio S.p.A. inoltre subentrerà senza soluzione di continuità in tutti i rapporti, attivi e passivi, facenti capo alla società incorporata.
«La fusione, con effetto dal 31/12/2016, rappresenta un passaggio essenziale per migliorare l’efficienza del Gruppo cui appartengono entrambe le società, oltre ai risultati economici, finanziari e patrimoniali» afferma Franco Goglio, Presidente e Amministratore Delegato.
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Fondata nel 1850 a Milano, Goglio oggi opera nel settore dei sistemi completi di confezionamento in imballaggi flessibili. È partner delle più importanti realtà industriali a livello mondiale grazie a innovazione, servizio e qualità dei propri prodotti. Il Gruppo conta oltre 1.600 dipendenti e un fatturato di circa380 milioni di euro (anno 2016), con una quota export del 73%.
Cuore dell’offerta Goglio è Fres-co System®, il marchio che definisce il business model del Gruppo: laminati flessibili alta barriera, accessori plastici come valvole e spout, linee di confezionamento e assistenza costituiscono il Sistema integrato Goglio. Gli elementi di Fres-co System® operano in sinergia per ottimizzare le performance di processo e soddisfare necessità di confezionamento specifiche.
Esperienza e know-how applicate a svariate tipologie di prodotti fanno del Gruppo Goglio un vero e proprio punto di riferimento in molteplici settori: caffè, alimentari confezionati in asettico o hot-fill, sterilizzabili, beverage, pet food, cosmetici e detergenti, prodotti industriali, chimici e farmaceutici.
Goglio è presente nel mondo con dieci stabilimenti produttivi e otto sedi commerciali e di assistenza con propri magazzini dislocati in Europa, America e Asia.
Uno dei classici bias del mondo grafico: le immagini per lo schermo e il Web vanno a 72 dpi. A parte l’errore dell’unità di misura, non ha senso parlare di quanti pixel stiano in un pollice (che è un’unità di misura fisica) quando l’immagine viene visualizzata su schermi (composti da pixel). In figura si vede come l’immagine sia a tutto schermo su due display che supponiamo avere la stessa risoluzione video di 1.920×1.080, e quindi non sia possibile avere su entrambi contemporaneamente la «risoluzione» di 72 ppi. Già a livello di logica qualcosa non torna.
Uno degli argomenti più critici del Desk Top Publishing è, da sempre, la risoluzione. Sigle come PPI e DPI sono presenti quotidianamente nella vita di grafici (nel senso più ampio possibile del termine) e operatori di stampa/prestampa, ma anche addetti al marketing (anche qui in senso molto ampio) e, purtroppo, una miriade di altri personaggi di varia estrazione che ne fanno un uso più o meno improprio, generando complicazioni a non finire.
Nel corso degli ultimi 25 anni, cioè da quando incontrai questo concetto la prima volta, ne ho lette di tutti i tipi, anche su manuali, libri e riviste dove avrei dovuto trovare spiegazioni corrette, per cui non è particolarmente sorprendente il perdurare di una tale confusione a riguardo; situazione tipica di quando si riportano valori o nozioni senza parlare del perché, se solo si ragionasse su alcuni dati si comprenderebbe in autonomia che alcune cose non hanno molto senso.
Quello che di recente mi ha sorpreso di più, e che mi ha spinto a scrivere queste righe, è che anche i software professionali utilizzino alternativamente queste unità di misura senza un coerente filo logico, contribuendo non poco ad alimentare uno status di per sé piuttosto confuso.
Una schermata alquanto discutibile presente sull’attuale versione di Photoshop CC in inglese dove vengono espressi in DPI valori che dovrebbero essere definiti in PPI. Inoltre le associazioni DPI/Dispositivo sono errate e sembrano proprio messe lì a caso secondo le più sterili convenzioni del mondo grafico (la risoluzione in pixel di un iPhone 6 plus per esempio non è 72, mentre uno standard HDTV da 1.920×1.080 non ha alcuna risoluzione trattandosi di una dimensione).
Esempi emblematici di questa confusione? Le varianti naturalmente possono essere moltissime ma se frequentate l’ambiente, forum di settore o gruppi specifici su Facebook sono sicuro ne avrete molti.
Solo alcuni esempi per dare un’idea:
per il Web le immagini vanno a 72 dpi
l’immagine non è a 300 dpi quindi in stampa non viene bene
la stampante stampa a 1.200 dpi quindi preparo l’immagine a 1.200 dpi
Ovviamente si tratta di tre, passatemi il termine,boiate colossali.
Uno dei classici bias del mondo grafico: le immagini per lo schermo e il Web vanno a 72 dpi. A parte l’errore dell’unità di misura, non ha senso parlare di quanti pixel stiano in un pollice (che è un’unità di misura fisica) quando l’immagine viene visualizzata su schermi (composti da pixel). In figura si vede come l’immagine sia a tutto schermo su due display che supponiamo avere la stessa risoluzione video di 1.920×1.080, e quindi non sia possibile avere su entrambi contemporaneamente la «risoluzione» di 72 ppi. Già a livello di logica qualcosa non torna.
Definizione di risoluzione
Se domandate a un gruppo di operatori grafici o designer una definizione sintetica di risoluzione, la più corretta che probabilmente sentirete è: «quantità di pixel o punti per pollice».
Di per sé funziona, personalmente specificherei «… per pollice lineare» dato che in più occasioni ho trovato operatori che pensavano a un’area di un pollice quadrato anziché a un lato, ma formalmente non sarebbe necessario.
Sarebbe però opportuno distinguere il concetto di risoluzione in almeno sette varianti, dato che viene usato sempre lo stesso termine (e spesso unità di misura) ma i contesti cambiano sensibilmente:
Risoluzione di Input
Risoluzione di Output
Risoluzione Video
Risoluzione di Stampa
Risoluzione Ottica
Risoluzione Meccanica
Risoluzione Interpolata
Le risoluzioni ottica, meccanica e interpolata sono risoluzioni legate all’ambito delle acquisizioni a scanner, poco significative per questo articolo ma inserite per completezza nel quadro.
Anche qui il valore più alto non è necessariamente il più significativo (tipicamente l’interpolato) e l’unico realmente interessante è quello legato alla risoluzione ottica.
La risoluzione di input
Si esprime in PPI, cioè Pixel per Pollice (come tutte le risoluzioni direttamente legate all’immagine digitale e non alla stampa), ed è un valore scarsamente utile.
Prendiamo per esempio uno scatto fotografico digitale da 12 Megapixel: per aderire ai parametri essenziali che la definiscono dovrà avere dei valori di base e altezza (supponiamo 4.000×3.000 pixel), un Metodo colore (RGB), una profondità colore (facciamo 8 bit per canale) e una risoluzione.
Dato che le dimensioni sono espresse in pixel. il valore di risoluzione non impatta in alcun modo sul peso dell’immagine, avrebbe senso solo qualora la si volesse stampare, ma dato che stiamo parlando di un’immagine digitale che per il momento potrebbe anche restare digitale. questo valore non ha alcuna importanza.
Quindi un’immagine da 4.000×3.000 pixel a 72 pixel per pollice (pixel, l’immagine digitale è fatta da pixel, non dot, 72 dpi è sbagliato, casomai sono 72 ppi) ha le stesse informazioni (pixel) di una a 300 pixel per pollice, o a 4.350 ppi, o 96 ppi… e di conseguenza anche il peso è esattamente lo stesso, così come l’ingombro dell’immagine visualizzata su uno schermo al 100% di zoom.
L’unica cosa che cambia sarebbero le dimensioni di stampa, ma questa è la risoluzione di Input, un valore iniziale che deve esserci solo per onor di parametro, di fatto non ha alcuna utilità.
I dati immagine di due file identici, con lo stesso contenuto e le stesse dimensioni in pixel, in cui è stato cambiato il solo valore di risoluzione portandolo da 72 a 300 ppi: il peso non è cambiato, le dimensioni fisiche si, in maniera inversamente proporzionale alla risoluzione.
Il problema tipico generato da chi fa confusione con questa risoluzione?
«L’immagine che mi hai inviato è a 72 dpi (!) quindi è in bassa risoluzione, mi serve in alta».
Al di là dell’unità di misura errata qui l’errore più grossolano è valutare la qualità o l’adeguatezza di un’immagine guardando il solo valore di risoluzione, ed è purtroppo molto frequente: o si considerano i pixel di base e altezza, oppure i cm/pollici e il valore di risoluzione.
La risoluzione di output
Si esprime in PPI ed è quella a cui si fa riferimento più comunemente quando si parla di risoluzione in senso generico e, soprattutto, quella che la maggior parte delle volte viene espressa in DPI (Dot per Inch, il Dot è propriamente il punto stampa).
Trattandosi di Output mette in relazione l’unità di misura digitale (i pixel) con l’unità di misura fisica (cm o pollici) ed è l’unico valore che conta quando si invia in stampa un’immagine raster, quindi, tornando alla nostra immagine da 4.000×3.000 pixel un conto è mandarla in stampa a 50 ppi (risulterebbe 2×1,5 m), un altro è stamparla a 300 ppi (poco più grande di un A4).
Software come Photoshop, Indesign, Illustrator, giusto per citarne alcuni, restituiscono informazioni dettagliate riguardo queste correlazioni (Finestra>Dimensione Immagine per PS, pannello info e barra delle Opzioni per gli altri due) e, correttamente, parlano sempre di pixel per pollice.
Quindi perché molti si ostinano a utilizzare DPI anche quando è evidente che si tratta di PPI? Sostanzialmente per abitudine, trattandosi però di tematiche tecniche non andrebbero scambiate le unità di misura con tanta leggerezza perché poi si dà luogo a incomprensioni e fraintendimenti che di professionale hanno ben poco.
La risoluzione video
Tra tutte è l’unica che non mette in relazione i pixel con il mondo fisico: la risoluzione video è de facto una dimensione e non un rapporto. Un esempio?
Uno schermo FullHD ha risoluzione (video) 1.920×1.080 pixel.
E perché non si parla di dimensione allora?
Perché con questa informazione nulla si sa sulla grandezza dello schermo ed è ormai consuetudine considerare «dimensione» la lunghezza della diagonale espressa in pollici, tanto è vero che se vi rivolgeste a un commesso per acquistare un televisore gli dareste, che so, una grandezza di 60’’, non 1.920×1.080 (perché in caso ne seguirebbe la domanda: e quanto grande lo vuole? Da che distanza lo guarda?).
In questo caso la risoluzione video è, sì, significativa, ma è una variabile molto meno discriminante della lunghezza della diagonale.
È importante per un grafico?
Sì, lo è se la destinazione dei nostri contributi raster è uno schermo, quindi chi prepara pubblicazioni elettroniche, interfacce grafiche per mobile/tablet e presentazioni da proiettare per esempio in una fiera, dovrà considerare solo la grandezza in pixel del materiale prodotto, la risoluzione non avrà alcun impatto sull’aspetto finale (vedi “risoluzione di input”).
Si potrebbero incontrare eccezioni a quanto ho appena scritto nell’ultimo paragrafo in quanto alcuni software attivano dei processi di ridimensionamento se le immagini inserite riportano una risoluzione di input di 72 ppi (o altri valori notevoli); questi sporadici meccanismi preventivi, alquanto fuorvianti a mio avviso, sono stati introdotti proprio per cercare di compensare le carenze tecniche dell’operatore nei processi di produzione, ma non fanno che sostituire un errore con un altro.
La risoluzione di stampa
Questa è l’unica che non viene definita in PPI. Può trattarsi di DPI nel caso della stampa digitale (inkjet, laser ecc…) o di LPI cioè Linee per pollice (per la definizione del retino in stampa tipografica), ma con l’immagine digitale non ha niente a che fare, e di fatto descrive soltanto il livello di definizione con cui il mezzo può stampare qualcosa, anche quando il mezzo è spento e staccato dalla corrente.
Se abbiamo quindi una stampante inkjet che può stampare a 2.880×2.880 DPI questo è vero anche se la stampante è ancora imballata, è una sua caratteristica qualitativa, e a quella risoluzione posso mandare in stampa anche un file TXT dove, trattandosi di un contenuto testuale, non viene richiesta alcuna risoluzione di output.
Non esiste una singola regola di corrispondenza diretta tra PPI e DPI, ce ne sono molteplici e hanno a che fare con il mezzo di stampa usato di volta in volta: anche di questo facciamo un esempio pratico (molto semplificato).
Vogliamo stampare a massima qualità una cartolina 18×13 cm utilizzando il meglio possibile:
a) una stampante fotografica Epson
b) una stampante fotografica HP
Ho preso questi brand a solo titolo esemplificativo e solo perché le testine utilizzano tecnologie (e quindi driver) diverse, fornendo così valori consigliati leggermente diversi.
Le stampanti Epson hanno generalmente risoluzioni di stampa multiple di 360: 720, 1.440, 2.880 DPI; le stampanti HP invece hanno numeri più «tondi»: 300, 600, 1200, 2.400 DPI (i valori in grassetto sono quelli che prenderemo in considerazione nell’esempio che segue).
Quanti pixel deve fornire la cartolina 18×13 per sfruttare al massimo la qualità fornita dal mezzo di stampa?
Per Epson il valore massimo suggerito è di 360 PPI mentre per HP è 300 PPI, sempre a dimensioni reali (a meno che non sia cambiato qualcosa negli ultimi tempi a mia insaputa naturalmente), quindi per la Epson le dimensioni in pixel massime saranno 2.551×1.843 mentre per le HP saranno 2.126×1.535.
Le dimensioni dell’immagine 18×13 cm che manderò in stampa su una inkjet fotografica Epson saranno al massimo quelle indicate in figura, valori maggiori saranno inutili e, anzi, potenzialmente peggiorativi, anche se a livello percettivo dubito si coglieranno differenze.
In nessun caso si imposterà un’immagine 18×13 cm a 4.800 ppi perché non c’è una corrispondenza biunivoca tra un pixel e un punto stampa (Dot), e anche in stampa tipografica ad altissime lineature con retini stocastici non ci sono motivi significativamente sensati per superare i 400 ppi, se non altro per questioni percettive legate al potere risolvente dell’occhio umano (tematica che sarà oggetto di un prossimo articolo su queste pagine).
Un pixel può assumere mediamente un colore arbitrario tra 16,7 milioni e la sua rappresentazione a schermo è strutturata su tre subpixel RGB (solo sintesi additiva), in stampa invece abbiamo, quando va bene, 5 colori e 4 neri (C, M, Y, C chiaro, M chiaro, K, K chiaro, K chiarissimo, a volte ci sono K diversi per stampe Matte e Photo, e a volte vengono introdotti inchiostri diversi come Arancioni, Verdi e Viola, composti secondo sintesi additiva e sottrattiva miste), di sicuro arriviamo a malapena a 8 tinte comprese quelle primarie schiarite, figuriamoci 16 milioni…
Fare confusione in questo ambito porta a equiparare i DPI di stampa con i DPI (sbagliati) dell’immagine digitale, creando magari immagini spropositatamente grandi che poi in stampa non solo impiegano tempi biblici a essere processate, ma soprattutto (ed è la beffa oltre al danno) hanno qualità minore di un file «giusto» perché tutti i dati che il driver ritiene superflui vengono scartati, togliendo di fatto dettaglio.
Ci tengo a specificare che i soli numeri delle risoluzioni di stampa qui riportati non sono significativi di minore o peggiore qualità di riproduzione, anche perché prima di «spaccare il pixel in quattro» è opportuno che l’immagine in questione sia corretta e dettagliata: un’immagine sfocata in partenza non potrà essere stampata dettagliata, come si suol dire in inglese: Garbage In? Garbage Out!
Si potrebbe approfondire la risoluzione di stampa ancora a lungo ma per questo ci sono manuali e pubblicazioni specifici, argomenti come il dithering, i retini tipografici, le stampe a sublimazione ecc… non sono sintetizzabili in poche righe a scapito di grossolane ed eccessive semplificazioni.
Conclusioni (per ora)
Questo specchietto dovrebbe servire a fare un po’ di chiarezza ma, come anticipato in apertura, lo scambio di unità di misura non è infrequente nemmeno tra i software professionali, e alcune denominazioni recenti come «HiDpi» coniata per definire i display ad alta densità di pixel (tipo i Retina Display di Apple) non aiutano di certo a dissipare la confusione.
Anche alcuni grossi stampatori online hanno deliberatamente scelto di mantenere DPI al posto di PPI nelle istruzioni al consumatore adeguandosi all’unità di misura più diffusa anche se non propriamente corretta.
E quindi?
Purtroppo le cose non cambieranno dall’oggi al domani, è quindi opportuno che gli addetti ai lavori conoscano bene queste differenze per capire quando questi termini vengono usati in maniera propria e quando invece no: molti clienti profani si improvvisano grafici perché «tanto non ci vuole niente», ma le basi tecniche dell’immagine digitale non sono un’opzione per chi ci lavora sul serio.
Nei prossimi numeri tratterò il perché della leggenda dei 72 PPI (valore inutile quanto ridicolmente attuale) e quali risoluzioni di output servano in funzione delle destinazioni d’uso. Molti libri hanno tabelline di riferimento con valori suggeriti in base alle dimensioni di stampa ma l’unica questione importante è legata all’unico destinatario di questi prodotti: l’uomo e il dettaglio che può risolvere a una data distanza.
Dopo 18 anni di direzione Claudio Covini lascia Assografici e va… in pensione! Assunta la carica di Direttore nel maggio del 1998 dopo anni di esperienza nel mondo confindustriale, Covini ha lavorato con sei Presidenti, da Gajani a Piovano, da Spada a Capodieci, da Colombo all’ultimo in ordine di arrivo, Pietro Lironi. Covini resterà ancora qualche mese in affiancamento al nuovo Direttore per un opportuno passaggio di consegne, in modo da rendere più agevole l’inserimento in una realtà composita e diversificata quale è il mondo Assografici.
Dal primo gennaio 2017 la carica passa ufficialmente a Maurizio D’Adda, 47 anni, laurea in Economia alla Bocconi. Dopo significative esperienze in RCS come responsabile marketing de La Gazzetta dello Sport e il Corriere della Sera, ha lavorato al Sole 24Ore come direttore marketing e system per poi approdare a Periodici S. Paolo in qualità di direttore generale. Infine ha collaborato in Fieg per la realizzazione di una nuova società incaricata di sviluppare il progetto di informatizzazione delle edicole. In forza di un Accordo tra Assografici e Unione Grafici Milano, egli assumerà anche la direzione di quest’ultima Associazione.
A Claudio Covini, da parte dello staff di Italia Grafica, un grazie e un in bocca al lupo per la sua vita! A Maurizio D’Adda un caloroso benvenuto e auguri di buon lavoro!
A destra Christoph Müller Amministratore Delegato della KBA-Digital & Web Solutions di Würzburg, che dal 1 gennaio 2017 ha preso la posizione di Managing Director di KBA-Flexotecnica S.p.A. di Tavazzano da Claudio Bisogni.
A destra Christoph Müller Amministratore Delegato della KBA-Digital & Web Solutions di Würzburg, che dal 1 gennaio 2017 ha anche assunto il ruolo di Managing Director di KBA-Flexotecnica S.p.A. di Tavazzano lasciato da Claudio Bisogni.
In linea con l’intento di Koenig & Bauer AG (KBA) di concentrarsi maggiormente sul mercato in espansione dei packaging, con la fine dell’anno si è avuto un avvicendamento nella direzione della società affiliata KBA-Flexotecnica S.p.A. di Tavazzano, nei pressi di Milano, specializzata nel settore di mercato dei packaging flessibili.
Con il 4 gennaio 2017, Christoph Müller, amministratore delegato della KBA-Digital & Web Solutions AG & Co. KG, con sede all’interno degli head quarter di KBA a Würzburg, e membro della direzione del gruppo, ha accettato l’incarico di Managing Director di KBA-Flexotecnica S.p.A., che svolgerà insieme alle sue precedenti mansioni. Claudio Bisogni, che ha guidato l’impresa con grande dedizione prima e dopo il suo rilevamento da parte di Koenig & Bauer nel dicembre 2013, ha lasciato l’azienda alla fine del 2016 per intraprendere nuove strade professionali.
Con la nuova direzione di KBA-Flexotecnica S.p.A. si prevedono una maggiore collaborazione tra gli stabilimenti e un migliore sfruttamento delle risorse tecniche e del personale nella sede principale. Per l’anno venturo, Koenig & Bauer sta pianificando la costruzione di un centro dimostrazioni presso lo stabilimento di Würzburg, ottimamente raggiungibile dall’aeroporto di Francoforte, per creare possibilità di presentazione al passo con i tempi alle straordinarie rotative flessografiche di Tavazzano e ad altre linee di prodotti. Inoltre, se la domanda continua a crescere, si prende in considerazione anche il montaggio delle flessografiche a tamburo centrale costruite in Italia per i packaging flessibili.
Il futuro dell’etichettatura e l’emergenza del Direct-to-Package Printing.
Come le tendenze dei consumatori guidano oggi il branding e il marketing? Come le nuove opzioni decorative accrescono le possibilità creative dei designer d’imballi? Quali sono i progressi in corso nella produzione di etichette autoadesive, come la crescita del packaging flessibile e i problemi di sostenibilità guidano le decisioni dei creativi?
Secondo i risultati di un sondaggio relativo al settore cibo e bevande si registra uno spostamento delle tecnologie di decorazione degli imballi verso la stampa diretta a detrimento dei sistemi di etichettatura, pur rilevando che le etichette termoretraibili siano in crescita rispetto a quelle autoadesive e a colla. Ciò è dovuto all’attuale tendenza verso la personalizzazione del packaging nonché alla proliferazione dei prodotti e alle tirature sempre più brevi. Un’ulteriore analisi dei risultati del sondaggio mostra un possibile vantaggio in futuro per il direct-package printing online e on-demand rispetto agli imballi prestampati. Un’alta percentuale degli intervistati (41%) ha confermato la validità dell’etichettatura a colla per applicazioni correnti specialmente negli impianti di confezionamento dotati di etichettatrici veloci a bobina per contenitori di forma cilindrica come bottiglie di vetro o plastica e barattoli metallici per alimenti. Le etichette autoadesive mantengono ancora la maggioranza del mercato, ma le previsioni per i prossimi due anni da parte dei brand owner delle aziende alimentari sono in favore della stampa diretta dell’imballo.
Questo provocatorio argomento coinvolge gli operatori di stampa e converting, i print buyer, i brand owner e – non ultimi – i consumatori in un mercato in fase di cambiamento. Tra questi, Timothy Bohlke, marketing innovation manager di Avery Dennison e Jim Warner, creative and strategic leader di JW3D LLC. Entrambi hanno esplorato gli aspetti salienti del confronto durante il convegno a margine dell’esposizione EastPack 2016 di New York lo scorso giugno.
È chiaro – secondo Warner – che le autoadesive o le shrink sleeve non sono affatto etichette obsolete da scartare; si tratta solo di considerare che può esserci spazio, in certe condizioni, per altri tipi di decorazione/identificazione degli imballi.
I sistemi di stampa
Certamente le etichette «in-mould» (a inclusione) costituiscono già oggi un sistema di identificazione innovativo in forte crescita per particolari tipi di contenitori come vassoi, scatole, vaschette, in quanto includono l’etichetta in fase di formatura (termica, o a iniezione) del contenitore stesso. L’azienda inglese Discovery Flexiblesha presentato un sistema in attesa di brevetto che supera la tecnologia in-mould in quanto esegue direttamente la stampa interna o esterna del contenitore in fase di formatura. Denominato Print & Form, il sistema permette di ottenere una decorazione a colori molto brillante durante il processo di termoformatura con eccellenti risultati estetici. Intervistato in merito a questa novità, Jimmy Urquhart, general manager di Discovery Flexibles, non ha dato molte spiegazioni sul processo, che è ancora patent-pending, tuttavia ha dichiarato che, dopo circa un anno di impiego sperimentale, sono state attuate alcuna modifiche e che si tratta esclusivamente di stampa rotocalco di alta qualità basata sull’esperienza della sua azienda in oltre 60 anni nella stampa industriale di imballaggi flessibili. La gamma dei materiali utilizzabili è molto ampia: Apet, Rpet, PVC, PP e Cpet in spessori da 400 micron a 1 mm ed è possibile stampare fino a nove colori.
Un altro sistema emergente di stampa diretta dei contenitori si basa sulla tecnologia 3D che, fino a ora, utilizzava l’etichettatura tradizionale per decorare gli elementi d’imballo creati con il sistema tridimensionale. Oggi è possibile creare componenti o imballi completi stampati a più colori in un unico passaggio contestualmente alla formazione 3D. 3D Systems è un’impresa che fornisce progettazione digitale e soluzioni produttive, tra cui stampanti 3D, materiali di stampa, componenti personalizzati e il sistema 3D ColorJet Printing (CJP). Questa tecnologia utilizza una testina di stampa inkjet che aggiunge colore liquido sullo strato di materiale in polvere in sezioni trasversali per creare imballaggi colorati o elementi d’imballo decorati. Combinando quattro testine di stampa CJP per i colori Cyan, Magenta, Giallo e Nero (Cmyk) è possibile disporre dell’intera gamma colori per riprodurre quasi ogni imballaggio stampato in un unico passaggio risparmiando tempo, sforzi e costi eliminando la fase secondaria di decorazione.
Serigrafia, tampografia, stampa a sublimazione
Prendendo spunto da quanto emerso nel convegno a EastPack 2016, ritengo utile ricordare che la stampa diretta sui contenitori è già in uso da molto tempo mediante la serigrafia, la tampografia e – più recentemente – la stampa transfer a sublimazione. In particolare la serigrafia viene usata per la decorazione/personalizzazione di oggetti di piccole dimensioni e contenitori per cosmetici e profumi, ma anche di bottiglie di detergenti, bibite e liquori (figure sotto).
La tampografia è utilizzata principalmente nel caso di forme e superfici irregolari di flaconi e tubetti (figura sotto), ma è oggi in parte sostituita dalla stampa a sublimazione tridimensionale.
Si tratta di una stampa a trasferimento che consente di decorare un gran numero di oggetti dalle geometrie irregolari e complesse con immagini in quadricromia ad alta definizione combinando in perfetto equilibrio pressione, calore e tempo. I pigmenti sublimatici passano allo stato gassoso quando la temperatura supera i 130° C. e migrano verso la superficie dell’oggetto da decorare; la pressione esercitata sull’oggetto mediante il vuoto pneumatico mentre è riscaldato nel forno imprigiona la stampa sulla superficie del materiale. Il tempo di applicazione è determinato dalla tipologia del materiale da stampare e dalle dimensioni dell’oggetto da decorare. Questa tecnica innovativa può essere usata su svariati materiali, a condizione che gli stessi possano resistere all’alta temperatura e alla forte pressione: plastica termoresistente, metallo, vetro, ceramica, legno, marmo, cuoio, madreperla.
Grazie ai pigmenti usati, particolarmente sottili, la stampa risulta limpida e trasparente e l’immagine su metallo sembra metallizzata, quella su madreperla diventa iridescente, mentre sul vetro lascia intravedere con eleganza il contenuto. I campi di applicazione sono molteplici: oltre agli imballaggi, oggetti casalinghi e di arredamento, come coperchi, maniglie, tappi, posate, bigiotteria, bottoni, gadget ecc. per i settori della profumeria, della cosmesi, della moda e della pubblicità (figura sotto).
Oggetti decorati con stampa transfer a sublimazione.La sequenza operativa del trasferimento immagine con il film PoliJetGold 3D, in figura.
Il sistema utilizza il film PoliJetGold 3D studiato e prodotto dalla società italiana Policrom Screens per trasferire immagini policrome su svariati tipi di oggetti. Il film viene stampato con la tecnologia inkjet piezo utilizzando inchiostri sublimatici a base acquosa. Mentre la carta sublimatica può adattarsi solo a forme piane o cilindriche, il film PolijetGold 3D aderisce perfettamente a oggetti di qualsiasi forma, sulla cui superficie trasferisce, per sublimazione, ogni tipo d’immagine a 360 gradi.
Xerox annuncia di aver completato la separazione da Conduent Incorporated, dando vita così a due aziende distinte. Il focus di Xerox, nella sua nuova identità, sarà il rafforzamento della leadership sul mercato delle tecnologie per la stampa digitale e i servizi con l’obiettivo di aiutare il clienti a innovare il modo in cui comunicano, si connettono e lavorano, nell’ottica di una migliorata produttività.
Allo stesso tempo Steve Hoover assume il ruolo di Chief Technology Officer, con la responsabilità della Ricerca e del Product Development, riportando direttamente a Jeff Jacobson, CEO di Xerox, nella foto, dopo la separazione dei due business.
Individuare i modelli di comportamento delle Consumer Community è utile per fornire un quadro sistematico e preciso degli effetti della comunicazione omnicanale.
Il Social Media Monitoring ha una funzione strategica, ovvero consentire al nostro brand di essere flessibile e sempre rispondente ai bisogni del target. Il termine è molto utilizzato nel social media marketing e nella digital strategy, ma talvolta se ne ignora la funzione e i reali benefici, sminuendo il suo ruolo e facendolo adottare più per moda che per una reale necessità.
Il Social Media Monitoring (SMM) è uno strumento finalizzato a comprendere e analizzare in modo approfondito le dinamiche e i comportamenti delle consumer community nel momento in cui interagiscono con gli argomenti trattati dall’impresa (il contesto d’uso di prodotti e brand).
Il Social Media Monitoring Semantico è un sistema articolato che consente di monitorare ogni tipo di conversazione inerente i prodotti di una specifica impresa, il marchio d’impresa, i competitor, le figure chiave aziendali e più in generale ogni possibile conversazione. Il fatto di essere semantico – ovvero di comprendere attraverso raffinati sistemi di intelligenza artificiale il linguaggio naturale – ci consente di monitorare più in profondità tutte le inferenze (conversazioni, menzioni, affermazioni e/o risposte) riferite a uno specifico business che si verificano nei canali monitorabili della social media sfera.
Tramite SMM è possibile conoscere le conversazioni pubbliche (su Facebook, Twitter, Instagram, YouTube e altri social network pubblici) che gli utenti generano indipendentemente dal fatto che vi siano o meno citazioni, link o menzioni dirette ai brand.
Nella sua forma più avanzata di Social Media Monitoring, vi sono anche sistemi di Visual Brand Monitoring in grado di identificare la presenza di marchi aziendali all’interno di materiale fotografico. Tali sistemi sono cioè in grado di identificare la presenza di brand (lattine di bevande gusto cola) all’interno di fotografie postate su Facebook, Instagram e altri social network pubblici.
Il termine semantico indica inoltre che il Social Media Monitoring è in grado di comprendere il linguaggio naturale e identificare gli stati d’animo degli utenti dall’analisi delle conversazioni: la sua natura semantica, quindi, è particolarmente utile per individuare lo stato di soddisfazione, neutralità o frustrazione di un utente analizzando le sue conversazioni pubbliche.
Algoritmi di intelligenza artificiale sono infatti in grado di dedurre con un notevole margine di esattezza le sensazioni di un utente (sentiment) deducendolo da pattern di comunicazione. Per fare un esempio: partendo dal post espresso in un social network «Di nuovo imbottigliato nel traffico. Non se ne esce vivi», il sistema è in grado di classificare il post attribuendogli un sentiment negativo.
Come si vede da Datalytics – l’applicazione di Social Media Monitoring Semantico che comprende i pattern della lingua italiana – queste applicazioni sono in grado di fornire un quadro generale di quali sono le tendenze relative a un determinato settore di business, quali sono le espressioni usate dagli utenti espresse in una nuvola di argomenti (Topic Cloud), dove queste conversazioni hanno luogo (Geolocalizzazione), chi sono gli attori coinvolti (Influencer e Contributor), quali sono le emozioni e gli stati d’animo e molti altri dati.
Ciò che è importante notare è come il SMM riesce – se strutturato in modo efficace da parte delle imprese che lo usano nelle loro indagini di mercato – a eliminare il «rumore comunicativo», ovvero tutte le informazioni non pertinenti l’oggetto di analisi.
Perché integrare il Social Media Monitoring nelle strategie di marketing omnicanale?
Barbara Busche, autrice del libro Lean Branding1 mette in evidenza come la funzione dei brand sia di essere un ponte tra le aspirazioni, i desideri e i bisogni dei consumatori e la promessa di vendita che consiste nel dare una risposta ai bisogni di clienti e prospect.
In questo quadro il Social Media Monitoring è lo strumento metodologico che ci consente sia di comprendere e ricavare in modo approfondito i bisogni degli utenti, sia di verificare quanto siamo in grado di rispondere ai loro bisogni.
Sempre Barbara Busche mette in evidenza come i bisogni degli utenti sono in continuo mutamento e come i brand devono essere «camaleontici» nel senso che devono assumere un ruolo perennemente mutevole nell’adattarsi alle evoluzioni della Target Community per rispondere in modo efficace ai bisogni degli utenti.
La funzione e il perché del SMM è quella di individuare e fotografare i bisogni della consumer community ricavando dati preziosi dalle loro conversazioni.
In questo senso il SMM ci dà indicazioni fondamentali per legare i bisogni della target community alla nostra strategia sia di branding, sia di digital marketing e più in generale alla strategia omnicanale.
Come costruire un cruscotto di Social Media Monitoring efficace
Per costruire un Cruscotto di Social Media Monitoring la prima cosa che dobbiamo fare è quella di identificare lo scopo e l’oggetto della nostra analisi. Per fare un esempio possiamo monitorare le conversazioni sul mercato, oppure su un nostro prodotto, oppure su un competitor, oppure sul nostro brand.
Una volta individuato il topic d’analisi, dobbiamo rispondere alla domanda: perché sto usando questo strumento? Cosa mi aspetto dai risultati che mi darà? Cosa ne farò dei dati ottenuti? Tradurremo questo bisogno individuando le parole e i termini che l’utente userà nelle sue conversazione che fungeranno da civetta per l’ascolto e l’analisi delle conversazioni.
Dopodiché le inseriremo nelle app di Social Media Monitoring. Questi programmi ci consentono infatti di crearci un Workflow, una vera e propria sala macchine nella quale inserire nell’app le parole chiave da monitorare. Se decidiamo di monitorare le conversazioni sul mercato, dovremo inserire le parole chiave che riteniamo i nostri consumatori useranno per il mercato: individueremo i nomi, le #Hashtag, gli aggettivi, i sostantivi che meglio identificano e caratterizzano la nostra community.
È importante essere il più possibile precisi, ma ricordiamoci che le applicazioni semantiche ci suggeriranno altri termini sinonimici che andremo a utilizzare per perfezionare la nostra ricerca, e consentiranno anche di escludere dei termini per eliminare le interferenze.
Identificare i canali da utilizzare
Una volta definito l’obiettivo del nostro monitoraggio e individuato le parole chiave, andremo a determinare quali canali social monitorare. Dobbiamo ricordarci che non tutti i canali social possono essere monitorati in quanto solo i post dettati come pubblici possono essere oggetto di monitoraggio. Le conversazioni su Whatsapp, i post di Facebook condivisi solo con gli amici, le conversazioni di Snapchat non possono essere monitorati proprio per la loro natura «privata».
Una volta creato il cruscotto, stabiliremo i criteri di misurazione (KPI, Key Performance Indicator), e quindi saremo in grado di comprendere cosa analizzare scremandolo dal «rumore» (per rumore indichiamo le conversazioni non pertinenti) e avremo un parametro di misurazione specifico, chiaro, stabile e dotato di senso.
È molto importante essere pazienti: il SMM inizia a dare risultati dopo sette oppure dieci giorni e diventa affidabile dopo i primi 30 giorni. Questi sono dati indicativi e variabili dall’ambito di monitoraggio. In linea generale possiamo stabilire che dopo una settimana possono emergere i comportamenti ricorrenti di un individuo in riferimento ai giorni della settimana. Ecco un esempio che chiarisce questa affermazione: nella sentiment analisi la giornata di lunedì è molto diversa dalle giornate di venerdì e sabato poiché i giorni della settimana determinano delle modificazioni nelle dinamiche di comportamento e di percezione delle emozioni.
Come utilizzare i risultati che emergono dalle nostre attività di monitoraggio
L’attività di monitoraggio ci dà alcuni risultati generali e altri risultati particolari. In termini generali otterremo un riassunto completo della produzione media dell’oggetto della nostra analisi (sotto).
Da questa tipologia di rapporto comprenderemo quali sono i post che hanno riscosso più successo nel nostro ambito di analisi: saremo quindi in grado di ricavare indicazioni utili sui materiali media creati e/o condivisi dalla nostra community. Potremo capire quali sono le tipologie di foto da loro scattate, quali soggetti sono inclusi, come vengono fatte le inquadrature e altri dati che ci consentono di costruire una identità del prospect o cliente tipo.
Otterremo informazioni molto preziose per capire la Brand Perception. Tramite un rapporto chiamato Buzz Trend vedremo come i nostri messaggi hanno impattato sulla nostra community e in questo senso comprenderemo come migliorare i nostri messaggi in modo da essere più efficaci sul nostro settore. Siamo inoltre in grado di effettuare delle analisi comparative tra i nostri brand e i concorrenti.
Otterremo inoltre – cosa importantissima – indicazioni preziose su come comunicano le nostre consumer community: otterremo ovvero dati fondamentali sugli «idioletti», ovvero i termini più usati da un gruppo di individui. Ma – dato ancora più interessante di questa tipologia di rapporti spesso identificati come topic Cloud – saremo in grado di comprendere sia quali termini sono più usati, sia quali aggettivi sono più usati, sia indicazioni in grado di determinare quali modelli di ragionamento e tratti comuni sono adottati dalla nostra customer&prospect community.
Il Social Media Monitoring Semantico ci dà inoltre delle indicazioni specifiche su chi comunica: ci consente di comprendere chi comunica parlando di noi dividendoli in Contributor e Influencer.
Per Contributor intendiamo le persone che contribuiscono alla nostra conversazione parlando di noi, menzionandoci nelle loro conversazioni. I Contributor non sono «super utenti dei social», non sono per intenderci delle celebrità con migliaia o in certi casi milioni di follower. E non sono nemmeno degli Influencer, ovvero persone in grado di determinare delle opinioni (trendsetter) oppure determinare dei modelli di comportamento.
I Contributor non sono delle superstar dei social, ma al contrario sono utenti «normali» e nella loro normalità diventano dei preziosissimi alleati in quanto parlano di noi: possiamo tranquillamente definirli dei Brand Lover. Possono al contrario essere dei Brand Hater, cioè persone che hanno maturato un astio verso il nostro brand. E per questa ragione dobbiamo individuarli, monitorarli e premiarli nel caso dei Brand Lover oppure cercare di mitigare o quanto meno contenere il loro astio nel caso degli Hater.
Nel caso degli Influencer ricaviamo gli stessi dati ma cambia la tipologia in oggetto di analisi, perché sono soggetti in grado di generare un comportamento imitativo.
Il Social Media Monitoring Semantico ci fornisce inoltre delle indicazioni utilissime su quali commenti, post, e materiali media hanno generato un sentiment positivo, quali hanno generato un sentiment negativo e quali hanno generato un sentiment neutrale indicandoci inoltre l’autore del commento. Questo ci può aiutare non solo a comprendere il motivo della Social Reaction positiva, neutrale o negativa, ma soprattutto a metterci in contatto con la persona che ha generato questo post.
Un altro importantissimo dato che il Social Media Monitoring Semantico ci fornisce si riferisce alla posizione geografica da dove provengono le Social Reaction: ci consente di direzionare in modo più mirato le scelte di marketing nel territorio, comprendendo quelli che sono più predisposti a un incremento delle campagne. Ma oltre a direzionare le campagne possiamo iniziare a clusterizzare i messaggi per origine territoriale. In nazioni come l’Italia nelle quali si assiste spesso a notevoli differenze di registri linguistici (basti pensare alle differenze tra le regioni che «danno del voi» e «danno del lei») il SMM fornisce dati utili per generare forme di iperclusterizzazione del target da utilizzare nelle strategie e ottenere in questo modo risultati più mirati e precisi.
Verso la definizione di Marketing e Consumer Personas dinamiche
Come abbiamo visto dagli esempi precedenti creare un sistema di Social Media Monitoring avanzato a presidio della nostra marketing community consente di essere più precisi nelle strategia di branding, di vendita e di marketing.
Il Social Media Monitoring consente di meglio definire le Marketing Personas ovvero quelle versioni immaginarie di un target che i marketing manager creano per meglio orientare le loro campagne. Tramite il Monitoring possiamo dare un valore aggiunto all’efficacia delle Marketing Personas in quanto uno dei punti deboli delle Personas è il proprio il loro aspetto statico: il Social Media Monitoring ci consente di arricchire e ottenere un profilo sempre aggiornato in modo dinamico.
1Busche Barbara, Lean Branding, 2014, Tim O’Reilly Editore
Quanti di voi, titolari di pmi, dovranno affrontare, nel breve periodo un passaggio di consegne a un figlio, un nipote…?
In Italia le imprese in queste condizioni sono moltissime, ecco alcuni brevi ma utili consigli per farlo nel migliore dei modi.
Il passaggio generazionale rappresenta una fase particolarmente complessa nella vita dell’impresa potendo mettere a rischio la continuità aziendale e, quindi, posti di lavoro. Nel tempo le associazioni di professionisti e di imprese hanno cercato di individuare le regole base del passaggio generazionale pur avendo presente che tali regole variano a seconda della tipologia di impresa, della realtà familiare e delle persone integrate nella struttura aziendale.
Secondo una ricerca Infocamere di circa quattro anni fa solo il 31% delle imprese familiari riesce a passare alla seconda generazione e solo il 15% alla terza generazione, spesso con gravi problemi per quelle imprese che passano «da padre in figlio».
Obiettivo del passaggio generazionale è tutelare l’integrità e la continuità dell’impresa evitando il conflitto fra gli eredi. Per fare ciò, è necessario pianificare tempestivamente e strategicamente il passaggio di consegne fra imprenditore ed erede, valutandone con attenzione opportunità e rischi.
Fra le pattuizioni contrattuali particolarmente rilevanti nell’ambito del passaggio generazionale merita di essere ricordato il patto di famiglia. Introdotto nel nostro ordinamento con la legge n. 55 del 14 febbraio 2006 e successive modificazioni, consente al titolare dell’impresa di anticipare il momento del trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni sociali ai discendenti o al discendente che si reputi più adatto alla gestione dell’impresa.
È un contratto plurilaterale che consente di realizzare diverse finalità. Fra cui:
prevenire ed evitare l’insorgere di liti ereditarie;
tutelare il valore e la capacità occupazionale delle aziende familiari;
assegnare il controllo societario ai soggetti ritenuti dall’imprenditore capaci di garantire la continuità gestionale dell’impresa.
Definizione. In base all’art. 768 bis e seguenti del codice civile il patto di famiglia è il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, ovvero il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, a uno o più discendenti.
Forma. A pena di nullità il contratto deve essere concluso per atto pubblico. Al contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore. Gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote.
Perizia di stima. Per evitare liti e incomprensioni tra eredi può essere utile, prima della stipula del patto, far predisporre una perizia di stima sull’azienda o sulle quote al fine di determinare i corretti conguagli tra i partecipanti all’atto. Il patto può essere impugnato entro un anno dalla sua stipula da tutti i partecipanti. All’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento di quanto loro dovuto in base alle normali norme successorie.
Benefici fiscali. I trasferimenti effettuati attraverso i patti di famiglia ex art. 768 bis c.c., a favore dei discendenti e del coniuge, di aziende o rami di esse, di quote sociali e di azioni non sono soggetti all’imposta sulle successioni e donazioni.
Il beneficio spetta limitatamente alle partecipazioni mediante le quali è acquisito o integrato il controllo ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile e si applica a condizione che gli aventi causa proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa o detengano il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento, rendendo, contestualmente alla presentazione della dichiarazione di successione o all’atto di donazione, apposita dichiarazione in tal senso.
Il mancato rispetto di questa condizione comporta la decadenza dal beneficio e il pagamento sia dell’imposta in misura ordinaria sia della relativa sanzione amministrativa.
La norma è volta a favorire il passaggio generazionale delle aziende di famiglia tutelandone la continuità.
Nell’ambito della successione aziendale è frequente inoltre la «costituzione di vincoli di destinazione su determinati beni».
Si tratta ovviamente di negozi mediante i quali determinati beni sono appunto «vincolati» alla realizzazione di un interesse meritevole di tutela, con effetti segregativi e limitativi della disponibilità dei beni medesimi.
Un esempio: trust, negozio fiduciario, fondo patrimoniale
Tali negozi possono avere effetti solo segregativi oppure anche effetti traslativi. Questo aspetto è molto importante sotto il profilo tributario. Infatti, in generale, possiamo dire che, se non vi sono effetti traslativi, non è dovuta l’imposta sulle donazioni ma solo imposta fissa di registro. Se, invece, vi sono anche effetti traslativi è dovuta imposta sulle donazioni secondo aliquote e franchigie ordinarie.
Grande importanza, nell’ambito della tipologia di negozi in parola, riveste il fondo patrimoniale.
Dal punto di vista civilistico, si tratta di un complesso di beni appartenenti ai coniugi, a uno solo di essi oppure a un terzo destinati a far fronte ai bisogni della famiglia. Non è un autonomo soggetto giuridico, ma un «patrimonio autonomo di scopo»; lo scopo si realizza con i frutti dei beni che lo compongono.
Possono essere destinati al fondo patrimoniale: immobili, mobili iscritti in pubblici registri, titoli di credito (che devono essere resi nominativi con annotazione del vincolo). Il fondo può essere costituito per un atto fra vivi avente la forma dell’atto pubblico (da annotare a margine dell’atto di matrimonio).
Oltre che dai coniugi può essere costituito anche da un terzo (in questo caso anche per testamento, con accettazione dei coniugi).
Il fondo permette di preservare i beni conferiti da azioni esecutive dei creditori, nei seguenti limiti: il creditore può aggredire i beni del fondo solo se:
il debito sia stato contratto per i bisogni della famiglia
il debito sia per scopi personali, ma il creditore non ne era a conoscenza; se invece il creditore è a conoscenza che il debito è personale non può rivalersi sul fondo.
Non sono da ricomprendere tra i debiti «familiari» i debiti da attività professionali e imprenditoriali e i debiti tributari; è dovuta l’imposta sulle donazioni, peraltro secondo gli ordinari criteri quanto a aliquote e franchigie – imposta fissa di registro, imposte ipotecarie e catastali, se vi sono immobili.
Le regole del passaggio generazionale elaborate dall’Ascri
Sul tema l’Ascri, un’associazione dedicata alla prevenzione delle crisi d’impresa che riunisce commercialisti, industriali e uomini della finanza, ha elaborato un insieme di regole efficaci e sicure (le regole del passaggio generazionale).
La presa di coscienza da parte dell’imprenditore del fatto che un familiare non portato per l’azienda non è un minus;
non utilizzare i denari dell’azienda a leva per eventuali liquidazioni ai soci o familiari;
coltivare un manager all’interno dell’azienda che possa eventualmente «stampellare» l’emergenza del passaggio generazionale;
individuare, in alternativa un manager esterno competente senza pregiudizi e con una visione strategica condivisa;
non scartare aprioristicamente l’idea di appoggiarsi a un fondo qualora non si individui un passaggio generazionale in grado di cavalcare la crescita;
il leader di un’azienda familiare deve avere enormi doti di calma e strategia per mantenere coese le persone e i soci in quanto è importante che ciascuno abbia un proprio ruolo e riconosca implicitamente il leader;
in ogni azienda che accompagni, tra quelli individuati, il passaggio generazionale, la salvaguardia dei posti di lavoro per i dipendenti strategici è estremamente importante in quanto l’azienda è un insieme di persone;
prendere coscienza che purtroppo un passaggio generazionale «imposto per tragici eventi» può capitare a tutti;
per le aziende fino a certe dimensioni, il commercialista storico può avere un importantissimo ruolo;
le banche, attente all’indebitamento dell’azienda, possono ideare sistemi di finanziamento che non pregiudichino l’attività aziendale.
Inutile ribadire che l’esistenza di una proprietà responsabile è il prerequisito fondamentale per far fronte alla sfida del passaggio generazionale, insieme a un sistema di valori che, guardando alla meritocrazia, promuova l’eccellenza più dell’appartenenza familiare. Inoltre il coinvolgimento di attori terzi, secondo quanto emerge dalle storie di molte imprese, permette di integrare le conoscenze dell’imprenditore ampliando così le sue valutazioni tecnico-economico.
Xerox, azienda diversificata che opera nel settore dei servizi, ha annunciato la nomina di Herve Tessler a Presidente delle International Operations. Tessler, attualmente a capo delle Corporate Operations di Xerox, assumerà il nuovo ruolo nel gennaio 2017.
Tessler definirà la strategia delle operazioni internazionali di Xerox guidando i relativi team in oltre 150 Paesi, con l’obiettivo di rendere disponibile l’intera gamma di servizi e tecnologie Xerox ai nuovi clienti, così come a quelli preesistenti, oltre che ai partner.
«La nostra visione di Xerox a livello internazionale è audace e rivolta al futuro», ha dichiarato Tessler. «Intendiamo fare leva sull’innovazione di Xerox semplificando i processi e permettendo ai team di agire localmente, al fine di servire clienti e partner in maniera rapida ed efficiente».
Grazie all’esperienza quasi trentennale in Xerox nei settori del general management, delle vendite, dello sviluppo del business, del marketing e delle operazioni internazionali, Tessler è riuscito a trasformare i modelli operativi, generando un’importante crescita della redditività aziendale. Attualmente, Tessler è responsabile delle funzioni corporate principali di Xerox, come ricerca e sviluppo, information management, account globali, marketing e comunicazione, tutela dell’ambiente, della salute e della sicurezza.
In precedenza, Tessler è stato Presidente delle Operations nei Mercati Emergenti di Xerox, ruolo nel quale si è concentrato sulle opportunità di crescita del mercati in via di sviluppo di tutto il mondo. Prima ancora, Tessler aveva ricoperto ruoli di leadership quale Head of Operations di Xerox in Europa centrale e orientale, Israele e Turchia; Presidente della consociata brasiliana di Xerox e Chief Operating Officer of Xerox DMO Regions West, area che include l’America Latina e i Caraibi.
Tessler ha conseguito un master in giurisprudenza presso l’Assas University di Parigi; inoltre siede nel board di A Better Chance, associazione no-profit americana che recluta studenti di colore capaci, motivati e dal brillante curriculum accademico, per guidarli verso una serie di opportunità formative e di leadership.
All’ultimo convegno Gipea, Elisabetta Brambilla, consigliera, ha dedicato il suo intervento all’indagine Finat che fotografa la situazione del comparto etichette in Europa e le sue tendenze.
L’indagine ha anche esaminato le prospettive dei converter del settore etichette per offrire soluzioni innovative:
1 – soluzioni di “cost saving” come l’uso di materiali più sottili
2 – stampa digitale e sistemi produttivi più efficienti
3 – soluzioni diversificate ampliando la gamma di prodotti e applicazioni (es. etichette sleeve)
4 – soluzioni interne di “artwork design” in modo che il cliente non debba appoggiarsi a studi grafici esterni
5 – soluzioni tecnologiche di nuova generazione come RFID, Smart Labels e altre applicazioni di sicurezza.
I fattori più salienti emersi dall’indagine sono la crescita media dei fatturati (+8,4%), la diminuzione della tiratura media con stampa convenzionale (-22%), il punto di breakeven per la tiratura media con stampa convenzionale (1.498 m lineari).