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Realizzazione di celle solari e circuiti elettronici in stampa

Un bell’esempio di collaborazione tra il mondo dell’industria e quello della ricerca scientifica. Prosegue la collaborazione tra l’Istituto Italiano di Tecnologia e Omet per la realizzazione di celle solari e circuiti elettronici stampati. E si concretizza con la creazione di una società per la vendita dei primi prodotti realizzati.

Quasi due anni fa, sul numero di dicembre 2014 di Italia Grafica, avevamo dedicato un servizio alle ricerche nell’ambito dell’elettronica stampabile effettuate dal Center for Nano Science and Technology di Milano (CSNT), nato nel 2010 e appartenente alla rete dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT). In particolare avevamo parlato del lavoro del gruppo ricerca di Mario Caironi sulla Printed and Molecular Electronics, che è riuscito a mettere a punto un procedimento che permette di stampare circuiti elettronici organici su supporti che spaziano dalla plastica alla carta. Non solo: all’interno del gruppo guidato da Caironi erano già a buon punto gli studi del ricercatore Marco Carvelli e dei suoi colleghi sulle celle solari organiche stampabili, che poteva contare sulla presenza in sede di una macchina flessografica Omet per le ricerche. Una forma interessante di collaborazione tra il mondo della ricerca e quello industriale (nella quale IIT è particolarmente versato) che abbiamo voluto approfondire, scoprendo che si è tradotta nella costituzione tra i ricercatori e Omet di Ribes, una società a responsabilità limitata per iniziare a commercializzare i primi prodotti messi a punto dal laboratorio.

Dal progetto alla startup

«Stiamo investendo da anni sull’elettronica stampata – ci racconta Antonio Bartesaghi – collaborando sia con università americane sia con l’Istituto Italiano di Tecnologica, fornendo le nostre macchine per la ricerca. L’obiettivo è quello di creare con un processo di stampa quello che fino a oggi è stato ottenuto con procedimenti diversi.

Antonio Bartesaghi, amministratore delegato di Omet.
Antonio Bartesaghi, amministratore delegato di Omet.

Il vantaggio che si otterrebbe, uso il condizionale perché la ricerca in questa direzione è ancora decisamente migliorabile nonostante abbia fatto passi da gigante negli ultimi anni, è di abbassare in maniera drastica i costi dell’elettronica con un impatto diretto sui costi dei prodotti di largo consumo e anche sulla possibilità di progettarne di nuovi, dagli schermi flessibili alla sensoristica con l’unico limite della fantasia applicativa».

Omet ha una conoscenza specifica dei processi di stampa con tutte le tecnologie presenti sul mercato e ha anche, da sempre, una buona propensione per l’innovazione. «Non soltanto partendo dalla conoscenza che abbiamo e che utilizziamo nei settori per noi tradizionali», precisa Bartesaghi «ma cercando di guardare oltre gli orizzonti consueti. Qualche tempo fa abbiamo pensato che se si potevano stampare circuiti elettronici, forse si sarebbero potuti stampare con lo stesso principio anche pannelli fotovoltaici. Attraverso un docente universitario del Politecnico siamo stati messi in contatto con IIT, una realtà che allora non conoscevo se non marginalmente. Abbiamo trovato un terreno fertile e ne è scaturito un accordo grazie al quale abbiamo fornito alla sede milanese dell’Istituto un nostro macchinario flessografico, sul quale i loro ricercatori assieme ai nostri tecnici hanno cominciato a lavorare sul fotovoltaico stampato».

Una collaborazione che ha cominciato a dare buoni frutti. «Non abbiamo ancora realizzato un processo industriale per questi prodotti», sottolinea Bartesaghi «ma siamo riusciti a stampare piccoli pannelli fotovoltaici che funzionano e generano effettivamente energia. Quando sono sottoposti alla luce artificiale la loro efficienza è paragonabile a quella dei pannelli tradizionali, mentre alla luce del sole hanno un’efficienza ancora non del tutto soddisfacente. Ovviamente la ricerca deve continuare secondo il tipico cammino dello sviluppo tecnologico, step by step. La cosa importante è che abbiamo raggiunto tutti gli obiettivi che ci eravamo proposti di raggiungere nei tempi previsti».

Il ricercatore di IIT Marco Carvelli mostra le prime celle solari stampate con una macchina flessografica della Omet.
Il ricercatore di IIT Marco Carvelli mostra le prime celle solari stampate con una macchina flessografica della Omet.

Le applicazioni di questa tecnologia sono importanti, limitate soltanto dalla fantasia applicativa. Pensiamo ad esempio a un sensore di allarme che può essere alimentato da un pannello fotovoltaico stampato che riceve energia dall’illuminazione di interni, senza bisogno di cavi o di sostituire pile. O all’etichetta di un packaging che può riprodurre filmati, alimentata da una cella solare integrata nella confezione.

«Ribes», conferma Mario Caironi, team leader del Printed and Molecular Electronics del CNST di Milano «si occuperà in generale di stampa di materiali intelligenti. Il filone principale sarà il fotovoltaico in generale, operando sia nel mercato della conversione della luce solare sia in quello della conversione della luce artificiale. Uno dei primi settori sul quale ci concentreremo è quello dell’Internet delle cose, che ha bisogno di energia perché tutti i dispositivi devono essere alimentati. Le nostre celle solari possono sostituire o affiancare le batterie di questi dispositivi, aprendo nuovi scenari tecnologici perché questi oggetti possono essere energicamente dipendenti».

Mario Caironi, team leader del gruppo Printed and Molecular Electronics dell'IIT.
Mario Caironi, team leader del gruppo Printed and Molecular Electronics dell’IIT.

Se la ricerca va avanti per migliorare il prodotto, i tecnici di Omet e i ricercatori di IIT si sentono già pronti a entrare a tutti gli effetti sul mercato. «Dallo scorso novembre il progetto di collaborazione si è trasformato nella costituzione di una società nata per fornire i primi prodotti basati sull’elettronica stampata funzionali alle sperimentazioni da parte delle aziende che stanno mettendo a punto i prototipi per applicazioni concrete. Andiamo ancora avanti con la ricerca ovviamente, perché siamo arrivati soltanto ai primi step di quanto ci eravamo prefissati, ma dal momento che abbiamo già dei prodotti vendibili, abbiamo deciso di affrontare il mercato con una società a responsabilità limitata, partecipata sia da noi sia dai ricercatori che hanno partecipato al progetto in questi anni».

Il rischio della ricerca pura

Investire nella ricerca pura non è cosa comune a molte aziende. Un conto è mettere dei soldi nella ricerca e sviluppo sui prodotti che fanno parte del core business aziendale, come le macchine flessografiche o quelle per il converting, nel caso di Omet. Un altro è investirli in un progetto sul quale inizialmente ci sono solo vaghe possibilità di un ritorno economico. «L’investimento nella ricerca per noi è un obbligo ed è l’unico modo per garantire la continua competitività e la crescita dell’azienda sul mercato» spiega Bartesaghi. «A questo bisogna aggiungere che noi siamo per natura portati a investire dove ci sia vera innovazione, fare cose che gli altri non fanno. Ogni azienda che investe in ricerca e sviluppo sa che questa attività è fonte di un potenziale reddito e nello stesso tempo rischioso. Nel caso dell’elettronica stampata il rischio iniziale era più alto, perché non avevamo la certezza che si potesse realizzare veramente quello che avevamo in mente. Era un tentativo basato sulla fiducia che avevamo nelle nostre competenze e in quelle di IIT. Oggi invece siamo sicuri, alla luce di quello che abbiamo fatto fino a ora, che questa attività diventerà un ambito di ritorno di investimento e quindi di reddito».

Un prototipo delle celle solari stampate nei laboratori del CNST di Milano mediante flessografia.
Un prototipo delle celle solari stampate nei laboratori del CNST di Milano mediante flessografia.

Omet
Il Gruppo Omet, con sede a Lecco, è formato da due società: Omet e O-Pac. La prima è stata fondata nel 1963 ed è formata da tre divisioni (ognuna con un proprio stabilimento) che si occupano rispettivamente della produzione di macchine da stampa in fascia stretta e media per la produzione di etichette e imballaggi, di macchine automatiche per la produzione di tovaglioli e asciugamani usa e getta e di sistemi a movimentazione a cuscinetti. O-Pac invece, fondata nel 1989, produce salviettine umidificate per vari usi. L’intero gruppo impiega circa 287 persone in Italia e 48 all’estero nelle tre filiali di Cina, Spagna e Stati Uniti. Omet Lavorazioni Meccaniche, con sede nella città di Lecco, è il quinto stabilimento produttivo del gruppo e serve le altre unità di business per quanto riguarda le parti e le lavorazioni meccaniche in genere. Le divisioni di Omet che producono macchine per la stampa di etichette e imballaggi e per il tissue converting hanno realizzato più di 1.300 progetti in tutto il mondo.
Innovazioni a tutto tondo. Se quella relativa all’elettronica stampata è innovazione pura, in casa Omet non viene naturalmente tralasciato il filone di ricerca e sviluppo più tradizionale, legato alle macchine da stampa per etichette che per il gruppo di Lecco rappresentano una delle sua attività di spicco. L’ultima novità riguarda la iFlex (un dettaglio nella foto), una macchina entry-level che introduce per la prima volta nel mondo della stampa flessografica un sistema di pre-registro assistito da laser denominato iLight e il controllo di registro iVision. Il primo è un sistema di pre-registro caratterizzato dalla presenza di un puntatore laser su ogni unità di stampa. I puntatori laser guidano l’operatore nell’allineamento di tutti i cliché, accelerando il cambio lavoro e riducendo gli scarti. Puntatori laser di fatto identici sono posizionati sull’unità di fustellatura – uno perpendicolare al taglio, per un accurato registro longitudinale, e uno allineato con il materiale per il miglior risultato di taglio/stampa. iVision, invece, è un sistema di registro assistito da videocamere (una per unità di stampa). Le immagini scansionate dal sistema sono inviate al display iVision per il supporto alla regolazione del registro manuale prima che il materiale raggiunga la fine della linea.
Un circuito elettronico stampato, in questo caso con una tecnica diversa dalla flessografia. Un’altra delle sperimentazioni fatte nella sede milanese dell’Istituto Italiano di Tecnologia.
Un circuito elettronico stampato, in questo caso con una tecnica diversa dalla flessografia. Un’altra delle sperimentazioni fatte nella sede milanese dell’Istituto Italiano di Tecnologia.

Istituto Italiano di Tecnologia
IIT è una fondazione di diritto privato istituita congiuntamente dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e dal Ministero dell’Economia e Finanze. Il suo obiettivo principale è di promuovere nel nostro Paese lo sviluppo tecnologico e l’alta formazione in ambito scientifico e tecnologico, ma la sua particolarità più interessante è rappresentata dal fatto che il suo programma mira a integrare la ricerca scientifica di base con lo sviluppo di applicazioni tecniche. E non solo sulla carta: la conversione in legge del decreto del 24 gennaio 2015 consente all’IIT di costituire o partecipare a start-up innovative e altre società, con soggetti pubblici o privati, italiani o stranieri. Come nel caso di Omet, ad esempio, che collabora in particolare con il Center for Nano Science and Technology che l’Istituto Italiano di Tecnologia ha aperto nel 2010 nelle vicinanze del Politecnico di Milano. Vi opera un centinaio di ricercatori (sono 800 quelli presenti nella sede centrale di Genova di IIT). Scopo dell’attività di ricerca del CNST è fare innovazione tecnologica partendo dalla ricerca di base. In particolare i campi di applicazione specifici sono la conversione fotovoltaica, i sistemi bio-mimetici e l’elettronica stampata. L’IIT ha al suo attivo di oltre 300 brevetti, che spaziano dai nuovi materiali alle nanotecnologie.

OneMorePack: serata finale e premiazioni by Grafica Metelliana

A Napoli serata conclusiva della terza edizione del premio ideato da Grafica Metelliana. Il OneMorePack 2016 è stato assegnato ai più innovativi imballi realizzati da professionisti e studenti che si sono distinti per cura dei dettagli, qualità e capacità di progetto.

La serata di premiazioni si è tenuta a Napoli, presso Agorà Morelli, durante la quale il packaging è stato assoluto protagonista. Il 23 giugno si è tenuto infatti l’evento conclusivo di OneMorePack, il premio ideato da Grafica Metelliana e giunto alla sua terza edizione.

Dedicato al design nel settore dell’imballaggio cartotecnico, il concorso si propone di individuare e promuovere i migliori packaging realizzati sul mercato italiano.

Il progetto nasce da una crisi settoriale, racconta Gerardo Di Agostino, amministratore delegato di Grafica Metelliana, «nel 2012 partecipammo alla fiera drupa per capire cosa stesse accadendo nel settore; già allora c’erano segnali della crisi degli stampati commerciali e al nostro rientro pensammo di mettere in atto un progetto per farci conoscere». Fu così che da un’intuizione di Marco Pecoraro, direttore commerciale dell’azienda, nacque il premio OneMorePack, che prese il via nel 2014.

Due le sezioni in gara, professionisti e studenti

I primi si sono sfidati in quattro categorie – Food, Non food, Visual e Label – con lavori realizzati per il mercato nazionale o estero; tra loro la giuria ha individuato anche quattro menzioni speciali. Mentre nella sezione a loro dedicata, oltre quaranta studenti di Istituti superiori e Università con indirizzo design si sono cimentati nella realizzazione di una soluzione pensata per una linea di profumi destinata al mercato italiano; l’obiettivo era la realizzazione di un sistema di packaging cartotecnico e un’etichetta.

L’idea che sottende il premio è di puntare al packaging, divenuto nel corso di questi anni, come lo definisce Di Agostino, «punto di forza del mercato» e grazie al quale la stampa può reinventarsi. In questa terza edizione, in particolare, emerge l’importanza dell’innovazione tanto nei supporti quanto nelle lavorazioni. I progetti dei professionisti sono caratterizzati da «packaging nobilitati, con un’attenzione nella ricerca e selezione delle carte e delle soluzioni cartotecniche» commenta l’ad. Mentre i lavori degli studenti si dimostrano a loro volta «sempre più attenti alle logiche del mercato reale».

L’edizione 2016 di OneMorePack è solo l’ultimo passo di un percorso iniziato tre anni fa, conferma Emily Louise Simonis, presidente della giuria. «I lavori premiati quest’anno mostrano una grandissima attenzione al dettaglio, alla qualità e alla capacità di progetto. È molto interessante notare l’evoluzione avvenuta in questi tre anni, durante i quali si sta cercando di uscire dalla crisi e, soprattutto, di trovare un nuovo modo di lavorare».

Un percorso che deve tenere conto di una precisa strategia, indispensabile per giungere a un risultato capace di interpretare tutte le declinazioni in cui sarà tradotta una marca, come hanno spiegato Elio Carmi e Alessandro Ubertis, dell’omonima agenzia Carmi e Ubertis di Milano, raccontando cosa sia il packaging design e riportando la loro personale esperienza.

Guarda i vincitori!

I premiati

A salire sul gradino più alto dei rispettivi podi sono stati, tra i professionisti, Corrado Del Verme (agenzia Santomiele graphics) con «Scatole ‘Officina del gusto’» per la categoria Food; Maurizio Di Zio e Fabio Di Donato (agenzia Studio 55) per la categoria No food con il progetto «Un sacco di rispetto»; Stefania Saracco (agenzia Junglelink) con «Milo» per la categoria Visual e Debora Manetti (agenzia Studio Kmzero) con «Label confetture e marmellate» per la categoria Label.

Mentre tra gli studenti si è aggiudicata il primo posto Lavinia Bonomi – Università degli studi di Genova, facoltà di architettura – che ha vinto uno stage di tre mesi presso un’agenzia di comunicazione.

Infine i premi delle quattro menzioni speciali sono stati assegnati ad Alice Tacconi per la Miglior innovazione, a Michele Bondani per la Miglior comunicazione, a Umberto Lui per la Miglior funzionalità, e nuovamente a Maurizio Di Zio e Fabio Di Donato per la Miglior sostenibilità.

drupa 2016: intervista a Stefano De Marco di Tecnau

 

Manuel Trevisan intervista il responsabile vendite e marketing di Tecnau.

Cuore italiano, mente italiana, che dal 2011 si è presentata sul mercato estero con l’acquisizione di Lasermax Roll System.

 

Scambio elettronico di ordini: ecco come ottimizzare il flusso

Il miglioramento delle performance degli etichettifici passa anche dalla condivisione d’informazioni tecniche, logistiche ed economiche con fornitori e clienti. Quando, quanto, cosa e come condividere.

Internazionalizzazione, innovazione, informatizzazione sono le tre «I» che hanno cambiato i rapporti tra etichettifici, clienti e fornitori. L’aspetto più rilevante è la crescente condivisione d’informazioni tese a ottimizzare innovazione, produzione, logistica. Da sempre le aziende impiegano i dati come volani per il miglioramento interno, ora l’attenzione si è spostata sulla filiera e il potenziamento passa dal mettere in comune informazioni pubbliche o strettamente riservate. I sistemi EDI (Electronic Data Interchange) sono stati in parte sostituiti da internet, dalla rete Gdsn (Global Data Synchronisation Network) e in modo crescete dal cloud. Gli EDI consentono lo scambio di documenti normalizzati tra sistemi informativi ed ERP (Enterprise Resource Planning) di diverse aziende.
La normalizzazione, ossia l’uso di un linguaggio che funge da interfaccia tra sistemi informativi diversi, permette lo scambio elettronico di ordini, documenti di trasporto, fatture, inventari e così via.

La rete Gdsn

Anche la rete Gdsn è un sistema di integrazione end-to-end, ma a differenza dell’EDI si avvale del Web: premette alle aziende di avere un unico punto di accesso alle informazioni di prodotto, i dati sono sempre aggiornati e si sincronizzano dopo ogni modifica. Il sistema è formato da una rete di archivi di dati e dal Global Registry. Quest’ultimo permette lo scambio di dati standard tra partner commerciali aderenti al sistema, assicurando che i dati condivisi siano unici e conformi alle regole mondiali.
I prodotti (Trade Item) sono identificati tramite un codice GS1 detto Gtin (Global Trade Item Number) mentre le aziende e i luoghi fisici sono identificati da un GLN (Global Location Number).
La combinazione di Gtin, GLN e Target Market (l’area geografica dove vale una particolare anagrafica) permette di condividere le informazioni sul prodotto garantendone l’unicità nella rete. Le informazioni di prodotto sono aggiornate in modo coerente tra i partner commerciali; i dati sono convalidati dagli standard che ne garantiscono l’accuratezza; l’unicità degli item è garantita dal Global Registry che identifica univocamente ogni unità pubblicata e le informazioni necessarie per il suo reperimento.

Tutti i perché sì del cloud

La “nuvola” è una trasformazione epocale che sta progressivamente estendendosi all’intera informatica: sta infatti cambiando il modo di programmare, gestire le infrastrutture internet, usare le applicazioni e progettare questi servizi. In passato i software si acquistavano, scaricavano e installavamo, ora si utilizzano direttamente sul Web previo abbonamento; le piattaforme di sviluppo software si installavano su un server, oggi si “affittano” per il tempo strettamente necessario; lo stesso accade per le infrastrutture complete (server, storage, database). I servizi cloud coprono tre grandi ambiti: SaaS (Software as a Service), PaaS (Platform as a Service), IaaS (Infrastructure as a Service).

Negli SaaS i software sono erogati come servizi, si pensi ai programmi fruibili attraverso la piattaforma Google Apps; gli PaaS trattano i servizi per sviluppare, testare e distribuire un’applicazione per esempio la Cloud Platform di Google; gli IaaS erogano l’intera infrastruttura IT (processori, storage, servizi di rete) per esempio gli Amazon Web Services.

Il cloud è privato quando l’infrastruttura e la piattaforma appartengono a una unica azienda che eroga servizi solo alle proprie consociate e unità produttive; è pubblico quando i servizi sono erogati via internet da un service provider a diversi clienti. Ci sono anche soluzioni miste, tra queste community cloud con servizi erogati da un’azienda o un service provider a un gruppo ristretto di organizzazioni che condividono alcune caratteristiche per esempio livelli di sicurezza, norme legali, obiettivi, l’infrastruttura può essere gestita da una delle aziende del gruppo o da un provider esterno. Nel cloud ibrido i servizi sono costruiti su infrastrutture che utilizzano la modalità privata per alcuni aspetti (per esempio la conservazione dei dati) e la modalità pubblica per altri (per esempio le interfacce di accesso).

All’etichettificio non resta che capire quale tra le suddette soluzioni è più consona alla propria organizzazione, quale il più economico ed efficiente, quale partner tecnologico dovrà fornire i servizi cloud. Le ragioni per passare al cloud sono tante e variano da azienda ad azienda. Le piccole imprese possono non avere le risorse necessarie per gestire in modo ottimale un server per servizi il backup, altre possono ritenere più economico ospitare i propri file e servizi nel datacenter di un provider che costruirne uno proprio; aziende che hanno già investito in infrastrutture possono voler rendere più efficiente il proprio datacenter adottando le caratteristiche di un cloud privato.

Una delle piattaforme cloud in forte crescita tra le piccole e medie aziende europee che stampano packaging è FileCamp. Creata nel 2010 per migliorare la condivisione di file e la gestione degli asset digitali è stata progettata per professionisti e aziende che lavorano nel settore della grafica e dei media. Ora vanta più di 25mila utenti in trenta Paesi, ha uffici in Svizzera, Danimarca e Stati Uniti.

Quali dati condividere

Oltre ai file grafici può essere utile condividere altre informazioni, badando però a non rivelare dati sensibili e a fissare sempre stringenti clausole di riservatezza.
È utile costruire una check list per identificare i rischi e valutare la probabilità che i “casi peggiori” si realizzino causando dei danni. Così facendo si arriva a ipotizzare la reale portata del rischio, a confrontarlo con l’impatto dei benefici attesi e a prendere la decisione giusta.
È importante ricordare che la condivisione di alcuni tipi d’informazioni può essere male interpretata e arrivare a essere considerata una violazione delle norme dell’antitrust.
Potrebbe nascere il sospetto che alcuni dati possano essere utilizzati per dare vita a un cartello, ossia a un accordo tra più aziende finalizzato a limitare o eliminare la libera concorrenza, tramite, per esempio, la fissazione di un unico prezzo di vendita di una data etichetta.
Le autorità antitrust hanno facoltà di controllare i sistemi di condivisione delle informazioni e i dati condivisi per accertare che non siano utilizzati a fini diversi rispetto all’intento originale. Se in passato la tecnologia era una barriera all’entrata, oggi le nuove tecnologie sono alla portata di tutti e ai partner di progetto non resta che negoziare specifiche, modalità e suddivisione dei costi.

Supplier Relationship Management nel settore etichette
SRM (Supplier Relationship Management) è la disciplina di pianificazione strategica per gestire le interazioni con i fornitori di beni e/o servizi. L’obiettivo è massimizzare il valore delle interazioni stesse.  Una relazione così impostata comporta un’aperta e mirata condivisione di dati, tecnologie, cultura per raggiungere obiettivi comuni: è solitamente riservata a pochi fornitori accuratamente selezionati e segue un percorso in cinque fasi, una sorta di roadmap percorribile per intero o solo in parte. Ad ogni fase corrispondono specifiche attività e i progressi sono quantificabili in base a parametri ben definiti.
Il primo passaggio è composto da «selezione iniziale, audit e assegnazione di campionature e piccoli lotti di fornitura». Attività tipiche di questa fase sono: condivisione di procedure amministrative e informatiche, capitolati e specifiche tecniche, prassi per l’assegnazione delle forniture, nell’intento di minimizzare gli errori derivanti dalla mancanza di un pregresso operativo comune. Vengono altresì verificati il rispetto dei tempi di consegna; sono discusse e chiarite differenze e discrepanze procedurali.
Si passa poi alla «fase sperimentale»: le forniture sono confermate, possono nascere occasioni per verificare la reattività e la capacità di problem solving. Prevalgono le attività di fine tuning nella collaborazione tra le due aziende.
Nella successiva «fase di intensificazione» aumentano comunicazione e feedback, si condividono informazioni sui costi, si cerca il modo per snellire i processi, eliminando gli eventuali colli di bottiglia e tutti i passaggi che non danno valore per potersi focalizzare sulla valutazione di progetti reciprocamente più vantaggiosi.
Si può poi pensare a una vera e propria «integrazione». In questo caso i processi delle due aziende sono del tutto armonizzati, si condividono asset, campagne di comunicazione, risorse umane.
L’ultimo passaggio prevede la creazione di joint venture per la ricerca e sviluppo, l’innovazione, la filiera degli approvvigionamenti, la logistica, i sistemi informatici.

Stampa digitale: cambiano gli orizzonti dello stampatore

La veloce trasformazione del mercato della stampa digitale in Europa.
I print service provider stanno guidando l’introduzione di nuovi prodotti e formati digitali. Ma quali di questi avranno più probabilità di diventare redditizi in futuro? La ricerca InfoTrends ci aggiorna sulle tendenze dei prossimi anni.

Rapida e invisibile, l’espansione del mercato della stampa digitale sta vivendo, specie in alcuni segmenti, prospettive di crescita davvero molto promettenti. Le basse tirature, la personalizzazione, il versioning e, soprattutto, la rapidità nell’esecuzione e nella fornitura delle commesse favoriscono alcuni business rispetto ad altri, sia sul versante B2B sia su quello B2C, come dimostra la ricerca InfoTrends presentata ai primi di giugno del 2015 durante la conferenza Dscoop Open di Dublino (ma ancora molto attuale, ndr) e relativa alle tendenze in atto sul grande mercato europeo. Tra questi trend ci sono alcuni interessanti incroci con settori del tutto esterni alla print industry, come per esempio quello dell’elettronica o della fotografia, che sono destinati a diventare nel tempo sempre più integrati e famigliari per clienti e consumatori. Ma andiamo a vedere gli highlight più rilevanti della ricerca.

Lo stampatore sta cambiando ottica

L’indagine InfoTrends, effettuata a metà febbraio 2015, mostra innanzitutto che la crescita più vigorosa e veloce è quella sostenuta dalle tecnologie digitali. Le 253 aziende grafiche intervistate su tutto il territorio europeo hanno infatti dichiarato che la parte più significativa del proprio giro d’affari è quella relativa ai prodotti realizzati con stampa digitale (49%), una percentuale molto più elevata rispetto al secondo protagonista classificato, la stampa tradizionale, che si arresta al 24,1%, quindi a meno della metà del primo. La terza scelta è invece per il wide format, che emerge solo per 17% dei rispondenti, mentre il packaging, il labelling e i servizi di creatività si attestano tutti e tre al 16,2%.
Fatta questa premessa sull’autorevolezza espressa già attualmente dal digitale, la ricerca passa poi a osservare tutta la potenza ancora inespressa da questa tecnologia, cioè quelle aree di espansione non ancora sfruttate appieno e quelle ancora del tutto inesplorate. L’indagine si rivolge quindi a poco più di cento responsabili d’aziende grafiche e domanda loro da che cosa sia dipesa la crescita del giro d’affari, qualora essa vi sia stata.
Le risposte mostrano un’interessante polarizzazione attorno a tre item significativi: l’espansione di servizi aggiuntivi verso il cliente (40,2%), gli investimenti in nuovi macchinari (39,2%) e quelli in software per l’automazione (38,2%). Anche gli investimenti realizzati nell’area vendite e marketing sono piuttosto rilevanti (35,3%) ma non vanno a toccare quegli elementi di innovazione di prodotto e di processo che tanto interessano la ricerca.
Significativo è inoltre il basso punteggio registrato da due delle scelte più sollecitate e quotate fino a poco tempo fa, cioè quella relativa alle specializzazioni di nicchia e quella focalizzata sulle politiche dei prezzi, entrambe statiche al 21,6%, sintomo forse di opzioni senza grosse possibilità di sviluppo.
Progresso e crescita vengono invece segnalati in un’altra parte della survey in cui si chiede agli intervistati quali trend generalisti impatteranno positivamente sul business nei prossimi cinque anni. E qui i benefici più importanti vengono riconosciuti nell’avanzamento del mobile marketing, nell’atteggiamento ecologista e sostenibile delle aziende grafiche, e nell’utilizzo di social media e marketing digitale, tutti sintomi di un’ormai mutata percezione del mondo da parte degli stampatori, assai più sensibili ai richiami dell’innovazione.
Una conferma parziale di quanto detto è anche nella risposta successiva, quella relativa alle iniziative che gli stessi stampatori metteranno in essere da qui a cinque anni per aumentare il proprio giro d’affari: ben il 52,2% afferma che si focalizzerà nella riduzione dei costi e nel miglioramento dell’efficienza produttiva, mentre il 40,3% espanderà l’offerta di nuove applicazioni e di servizi innovativi per il cliente.

Le nuove aspettative dei buyer

Mutando la prospettiva il risultato non cambia. Vale a dire che, anche osservando le cose dalla parte del cliente finale, la richiesta di cambiamento rispetto alle logiche dell’offerta e del servizio è sempre più urgente e indispensabile. Laddove infatti si chiede ai buyer europei (ben 509 gli intervistati) quali siano i criteri di scelta di un print service provider, le risposte si focalizzano sulla qualità dell’ouput di stampa (2,7 su una scala da 1 a 4), sul «valore» intrinseco espresso da uno stampato (2,6), sul suo prezzo finale (2,6) e sulla gamma di servizi aggiuntivi (2,5). Preferenze, queste, che si impongono per importanza su altri aspetti considerati negli ultimi anni dei must-have, quali per esempio la capacità di cambiare lavorazioni in fretta, il rapporto privilegiato con il cliente attraverso una persona dedicata, o ancora le credenziali di sostenibilità ambientale dell’azienda di stampa. Evidentemente la crisi e la competizione sul mercato stanno facendo focalizzare l’attenzione dei clienti su alcune caratteristiche di affidabilità ritenute ormai inderogabili, a scapito di altre considerate importanti, sì, ma meno stringenti.
Ancora più interessante è inoltre notare che i buyer intervistati in questa ricerca dichiarano di aver usato (ben il 72% del totale degli interpellati) materiale stampato per campagne di marketing integrato («qualche volta» il 46,6%, «spesso» il 19,6% e «sempre» il 5,7%), a dimostrazione del fatto che l’utilizzo di stampati con connessioni multicanale rappresenta uno dei business più promettenti del futuro.

Personalizzazione e integrazione

Naturalmente queste operazioni di «linkaggio» e ibridazione tra stampa e media avvengono più facilmente quando il lavoro viene realizzato con tecnologia digitale, soprattutto laddove il livello di personalizzazione è più alto e il dato da stampare è variabile. Ed è in questa direzione, infatti, che 299 aziende (cioè tutte quelle in grado di misurare i risultati delle proprie campagne media) hanno risposto, attribuendo il 9,9% di successo (su una scala da 1 a 10) a quelle operazioni che coinvolgono più canali contemporaneamente, come la stampa, l’e-mail, le landing page dei siti Web e il mobile marketing. Quest’ultimo dato è forse il più interessante tra tutti quelli emersi nella ricerca InfoTrends perché l’integrazione tra stampa e device mobili è una delle frontiere più attraenti per tutto il comparto della print industry.
L’interazione tra stampa e contenuti accessibili via «mobile» è oggi offerta da una serie di strumenti tecnologici come i QR code, il mobile messaging, gli Nfc e la realtà aumentata, tutte innovazioni caratterizzate da un comun denominatore, quello di essere facilmente stampabili. Sia su flyer, magazine, biglietti da visita e cartellonistica, sia sul packaging stesso degli articoli in commercio. Rendendo così il business della stampa «linkata» un vero driver per le sorti di tutto il mercato.
Il problema, al limite, è rappresentato dal fatto che la maggior parte dei consumatori è ancora all’oscuro dei possibili utilizzi di questi strumenti. Soprattutto sul fronte della personalizzazione dello stampato. In questo senso diventa fondamentale il ruolo degli stampatori nell’introduzione di nuovi prodotti e formati, facendo da guida e da apripista alla scelta dei consumatori finali.

La fotografia: un’occasione da non perdere

Proprio sul versante dei prodotti estremamente personalizzati esiste già oggi un grande business che sta sviluppando una serie di innovazioni di prodotto via via più interessanti. Si tratta ovviamente della fotografia, vero culmine della customizzazione di prodotto. Ogni pezzo è infatti unico e presenta un livello di coinvolgimento (engagement) del cliente superiore a ogni altra forma di comunicazione stampata. Anche qui il problema è quello di comunicare bene ai consumatori finali che cosa possono realizzare con le proprie immagini.
Il rapporto InfoTrends mostra grandi opportunità proprio in questa vasta area di applicazioni, caratterizzata dai numerosi segmenti che spaziano dai photobook fino alla stampa commerciale. D’altronde i dati parlano chiaro: il numero di stampe originate da immagini digitali scattate dagli utenti è in poderosa crescita, in particolare quelle realizzate con gli smartphone. InfoTrends parla di un incremento del mercato che parte dai 1,2 miliardi di euro del 2014 per arrivare a 1,5 miliardi nel 2019. Da notare che il mercato online rappresentava nel 2014 il 73% dei ricavi totali della stampa di immagini fotografiche. E secondo InfoTrends è molto probabile che nel 2019 si arrivi al 76%. Inoltre con l’aumento dell’uso di social network, la forma di comunicazione fotografica e la condivisione degli scatti stanno raggiungendo livelli impensabili fino a pochi anni fa, con interessanti ricadute anche sul fronte della riproduzione su carta di quelle stesse immagini.

Il grande successo dei photobook

Le applicazioni fotografiche più promettenti risultano oggi essere quelle dei photobook, dei calendari fotografici e dei canvas. I fotolibri nel 2014 hanno coperto il 24,3% del totale dei volumi fotografici stampati e la loro crescita attesa è per il 2019 intorno al 31,3%. I calendari rappresentano nel 2014 il 13,8% della torta e per loro è prevista una crescita fino al 15,5% da qui al 2019. Infine i photo canvas, un prodotto ancora poco conosciuto e apprezzato dai consumatori, hanno avuto nel 2014 una quota di mercato pari all’8,4% ma hanno davanti a sé una crescita molto sostenuta fino al 2019, stimata intorno al 14% del totale dei volumi venduti. Quest’ultimo prodotto ha dalla sua anche una progressiva diminuzione del prezzo medio unitario che passerà dai 42,9 euro registrati nel 2014 ai 38 euro del 2019.
Per il momento il prodotto che si sta differenziando maggiormente resta però il photobook, forse più maturo degli altri prodotti fotografici, sicuramente il più duttile e meglio predisposto alle trasformazioni di formato. Attualmente alcuni importanti operatori online propongono fotolibri in formati che partono dal «pocket» (15×11 cm) o dallo «small» (14×13 cm) per arrivare fino all’«XXL landscape» (38×29 cm), a dimostrazione di un’offerta sempre più variegata e dinamica anche all’interno dello stesso segmento.
Anche in questo caso la possibilità di integrare il prodotto photobook con applicazioni di Qr code o di realtà aumentata trova grandissimo credito, con vere e proprie potenzialità applicative, come la ricerca InfoTrends non tarda a dimostrare: alla domanda se l’inserimento nel fotolibro di QR code che rimandi a un filmato attivabile e visionabile su smartphone può risultare intrigante per il consumatore, ben il 34% dei rispondenti dimostra vivo interesse, il 26,1% mostra un buon interesse, il 13,8% un interesse moderato, mentre soltanto il 20,4% si dimostra per niente interessato e il 5,7% poco interessato.
La ricerca di nuovi formati e di innovative applicazioni per la stampa fotografica svolgerà, dunque, un notevole ruolo di apripista per altri prodotti editoriali che saranno in grado di coniugare i contenuti e una buona dose di gusto e creatività personale, rendendo lo stampato un prodotto altamente customizzato e di valore intrinsecamente elevato.

drupa 2016: intervista a Ralf Schlozer di InfoTrends

Manuel Trevisan ha intervistato Ralf Schlozer, direttore della divisione European on demand printing&publishing consulting service di InfoTrends.

«Drupa è un must, sono alla mia settima presenza e ha sempre un grande fascino. Per me è un’ottima occasione per conoscere il mercato, e per capire dove andrà. E ovviamente un momento di incontro e confronto con gli altri operatori del settore. Questa drupa in particolare ci sta mostrando come il settore sia capace di continuare a evolversi, reinventandosi, ci sono diverse tecnologie nuove; il packaging e il commerciale stanno evolvendo insieme, nel grande come nel piccolo formato, la stampa si sta imponendo come una parte di un processo più grande, con automazione e sistemi intelligenti.»

Quali sono secondo te i trend del mercato, sia a livello globale, che italiano?

«Questa un’industria guidata dalle persone, inventori, innovatori, imprenditori, ecco perché incontrare le persone è sempre interessante: scambiarsi idee, opinioni… al di là della tecnologia e delle valutazioni sul mercato. Il mercato italiano è senz’altro tra i primi, soprattutto nella stampa digitale e sulla stampa industriale. L’Italia è un grande esportatore di prodotti stampati.

«Sono stato ad alcuni eventi, dimostrazioni, recentemente, che mi hanno colpito. Gli imprenditori, almeno alcuni, cercano sempre di essere in prima linea, e per questo sono persone interessanti, che creano.»

Il successo della carta da parati, nelle parole di Mauro Jannelli

Mauro Jannelli

Le imprese italiane devono essere consapevoli dell’unicità culturale dei consumatori a cui si rivolgono. Una ricetta appresa perfettamente da Jannelli&Volpi che ha portato le sue carte da parati negli showroom più raffinati di ogni angolo del mondo.

Sembra proprio che le imprese italiane oggi non possano più limitarsi a un approccio timido verso i mercati esteri. Un po’ per via di un fronte interno asfittico che non riesce più ad assorbire l’offerta, e un po’ perché anche all’estero esistono ormai frotte di progettisti, ingegneri e creativi pronti a sviluppare le nostre stesse capacità in quasi tutti i settori della produzione e del design. Insomma, presto non potrà più bastare il semplice appellativo «made in Italy» ma occorrerà aggiungere nuovi sostanziosi ingredienti.

Una fase della lavorazione della carta da parati nello stabilimento Sirpi di Tribiano (MI).
Una fase della lavorazione della carta da parati nello stabilimento Sirpi di Tribiano (MI).

L’unico modo per poter accedere con successo alle piazze di questi mercati sarà quindi l’innovazione di prodotto?

Lo chiediamo a Mauro Jannelli, proprietario del gruppo Jannelli&Volpi, tre generazioni di storia nella carta da parati, settore che ha conosciuto una grande espansione all’estero e che oggi permette all’azienda di realizzare oltreconfine ben il 90% del fatturato.

La carta da parati è un articolo molto particolare. Ci racconta l’evoluzione di questo prodotto da semplice «coprimuro» a elemento d’arredo?
«Il prodotto carta da parati era di gran moda nel mercato nazionale a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, poi è caduto in declino di gusto e di immagine perché le pitture decorative e altri prodotti ne avevano preso lo spazio.

Il prodotto «Carta da parà» progettato da Stefano Panterotto, uno dei giovani designer ingaggiati da Jannelli&Volpi.
Il prodotto «Carta da parà» progettato da Stefano Panterotto, uno dei giovani designer ingaggiati da Jannelli&Volpi.

Negli anni 2000 è tornata a conoscere una crescita di immagine molto interessante anche sul mercato nazionale, pur avendo perso tutti i grandi volumi degli anni migliori. Oggi rispetto ad allora è un prodotto di nicchia, di design, considerato di fascia alta e quindi ben diverso da quella carta da parati italiana ed europea degli anni Settanta, che era considerata perlopiù una copertura delle mura domestiche. Ora si rivestono solo quelle parti della casa che necessitano di una valorizzazione in termini di design e decorazioni.
La crisi degli anni Novanta ci ha portato in anticipo rispetto ad altri settori a guardare all’estero come mercato di sbocco, e ora beneficiamo di un buon posizionamento della carta da parati italiana in molti Paesi del mondo. Dopo i tedeschi, dal punto di vista del volume, siamo tra i tre Paesi esportatori più importanti al livello globale».

Torniamo alla domanda d’apertura. Può ancora bastare l’innovazione di prodotto, o forse è arrivato il momento di «reinventarsi» per approdare all’estero?
«Penso che l’innovazione del prodotto sia un elemento necessario ma non sufficiente alla buona riuscita dell’impresa. Dico necessario perché non saremmo mai in grado di competere con le produzioni locali, siano esse cinesi, russe, tedesche o americane, se non con un aspetto tecnologico e innovativo rilevante. Dico anche che non è sufficiente perché occorre aumentare le nostre conoscenze in merito ai gusti e ai costumi dei mercati di riferimento. Serve infatti la capacità di adattare i nostri prodotti alla cultura locale, pur mantenendo quello stile che contraddistingue il prodotto made in Italy. Quindi esiste un’attività che io definirei un po’ “camaleontica” nel riuscire a essere se stessi pur adattandosi alle sfumature che giustamente caratterizzano ogni mercato locale».

Non teme la concorrenza di aziende dei Paesi minori che possono scovare manager occidentali bravi ed esperti, pagarli fior di quattrini e in questo modo risolvere il problema delle competenze?
«Fino a oggi, nel nostro settore, non si sono registrate situazioni di perdita di know how a seguito del distacco di manager, ma è certo che questo potrebbe rappresentare una minaccia. Il livello qualitativo e competitivo delle produzioni locali è cresciuto in modo molto rilevante nell’ultimo decennio, tale da aver già sostituito una parte dei prodotti italiani, soprattutto nella fascia media. Quindi diciamo che l’elemento di concorrenza relativo alla produzione autoctona ha già ridotto e in prospettiva ridurrà ancora i volumi delle nostre produzioni. In particolare occorre sottolineare che la recente crisi economico-valutaria in Russia, e quindi tutto ciò che riguarda le transazioni in Rublo, ha incrementato il costo e anche i prezzi finali dei nostri prodotti. Come vede, a volte giocano a sfavore anche questi fattori ambientali. E, quando ci sono, generalmente non hanno un rientro facile. Quindi non credo ci siano minacce così evidenti rispetto alla “fuga” dei manager, pur essendo comunque un fatto da non sottovalutare».

Giriamo la prospettiva: voi come avete fatto a presidiare quei mercati lontani? Ricordo un’intervista del passato dove si parlava di Turchia e Medio Oriente, due opportunità ghiottissime per voi. È bastato collocare laggiù un ufficio di rappresentanza?
«Certamente anche noi, nel nostro settore, abbiamo fatto uso finora di questi uffici di rappresentanza, e comunque di agenti, come strumento di promozione del prodotto. Quello che noi oggi osserviamo come utile e necessario è la presenza di show-room creati e situati in location geograficamente vincenti, e quindi adeguate a fornire visibilità ai nostri prodotti e ai brand. Questa formula si è evoluta nel tempo e si appoggia molto spesso a partnership contratte con clienti nelle città più rappresentative come Parigi, Londra, Pechino, New York, Dubai, Francoforte, Mosca ecc. Quando noi trattiamo con un nostro concessionario, che a quel punto non raffigura più un ufficio di rappresentanza, chiediamo e caldeggiamo una collaborazione per poter allestire show-room condivisi nella presentazione del prodotto. E questa non è poca cosa perché si assegna un taglio di immagine di un certo tipo. Quindi non si tratta esattamente di un presidio aziendale di Jannelli&Volpi in quella determinata realtà locale, ma di una vera e propria collaborazione. E credo che questa sia, in una luce prospettica, la direzione giusta da seguire».

Quindi per avere successo in Paesi lontani da noi culturalmente ci vuole un business con caratteristiche locali. Voi come avete fatto a comprendere questi gusti “nativi”?
«Più che avere una risposta mi piacerebbe poter dire che si riesce sempre a raggiungere quest’obiettivo, anche se a volte non è così semplice. Torno a dire che non c’è una via unica a che occorre essere un po’ camaleontici. Noi cerchiamo di creare dei product manager, o meglio dei “product area-manager”, vale a dire persone che si specializzano visitando il luogo e approfondendo le conoscenze di quel mercato. In modo tale che nello sviluppo del prodotto, realizzato qui in Italia, riescano a trasferire la massima attenzione rispetto alle esigenze locali. Questo è quello che cerchiamo di fare. Inoltre completiamo questa ricerca con mirate azioni di marketing che valorizzino i design e i brand che ci sostengono. Ripeto, l’innovazione è importante e necessaria, però se dopo non si trovano gli strumenti in grado di dare luce ai prodotti innovativi attraverso attività di marketing adeguate, non si arriva mai a penetrare il mercato nel modo giusto».

E questi vostri product manager sono locali o italiani?
«Sono italiani. Da questo punto di vista credo sia molto importante mantenere questa “originalità”. Noi italiani abbiamo storicamente la capacità di trasferire e trasmettere una conoscenza, uno spirito e uno stile che non riusciremmo mai a ritrovare nei manager locali».

Però occorre saper parlare bene il turco o il cinese…
«Sicuramente l’aspetto della comunicazione è molto importante, ma è ancora più importante quello che ho detto poco fa sulla trasmissione di un “saper fare” che è tutta nostrana. Il massimo è trovare un italiano in loco che possa svolgere questa funzione, anche se sono convinto che si possa diventare un vero product manager vivendo laddove il prodotto nasce e si realizza».

Prima mi accennava alle iniziative di marketing. È chiaro che il consumatore mediorientale o asiatico richiederà un’esperienza di acquisto molto diversa da quella occidentale. Come fate a comprendere quali corde toccare?
«È ovvio che anche gli strumenti di marketing necessitano di una maggiore attenzione e cura rispetto ai tempi passati. Quindi occorre certamente l’innovazione di prodotto ma anche quella relativa al marketing. È importante però che sia sempre l’azienda a guidare questi cambiamenti, più che farsi guidare passivamente dalle esigenze locali. Devo inoltre aggiungere che in questi ultimi anni si sta verificando uno connubio interessante tra il mondo della moda e quello dell’interior design. È un fatto che molti stilisti famosi stiano approcciando con interesse il mondo delle carte da parati. Ne danno prova le crescenti attenzioni di importanti stilisti di moda, primo tra tutti Giorgio Armani. La linea Armani Casa, di cui il nostro gruppo è licenziataria, sta dando forte impulso alla carta da parati come complemento d’arredo.
Per Armani infatti vestire la casa è come vestire una persona
. E da questo punto di vista la sinergia che si è creata è già di per sé una vera e propria attività di marketing. Armani direziona o sceglie i nostri disegni, certo, ma è vero anche che conta moltissimo il suo nome. In sostanza, il brand Amani si impone molto facilmente sul mercato».

Anche voi state usando leve e canali di marketing come Facebook o Pinterest?
«Direi che più i mercati sono lontani, e più i social network e internet diventano strumenti utili e importanti. Il nostro è così facilmente visualizzabile che trova nelle immagini digitalizzate uno strumento di promozione molto facilitato. Occorre in ogni caso essere molto attivi e propositivi con questi mezzi. Sembra facile realizzare una pagina Facebook o Pinterest, ma occorre costruire e coltivare risorse umane che vivano in azienda e sappiano nutrire costantemente il social network dei valori giusti. Credo occorra investire molto in tal senso. Noi lo stiamo facendo da tempo. Abbiamo un discreto e attivo social network come Jannelli&Volpi dove siamo attivi già da qualche anno, e stiamo spingendo in tale direzione soprattutto con Facebook e Instagram. Un po’ meno con Twitter perché privilegiamo ovviamente l’uso evocativo e intelligente delle immagini. Ovvio, poi, che tutti questi strumenti convergano sui nostri siti internet, che rappresentano la vetrina ufficiale della nostra offerta».

In quali Paesi vendete maggiormente e qual è il vostro fatturato?
«Il fatturato del gruppo si aggira intorno ai 45 e i 50 milioni di euro, il 90% del quale realizzato all’estero. Per quanto riguarda i Paesi esteri, abbiamo seguito delle epoche storiche. Negli ultimi dieci anni è stato rilevante tutto il mercato ex Urss, che ha giocato la parte del leone, negli anni Novanta eravamo molto “americani”, mentre l’Europa è sempre stata molto rilevante, dal momento che copriva circa la metà del nostro fatturato. Se ragiono invece sul prossimo decennio, penso che andranno molto bene i mercati asiatici e mediorientali, mentre il mercato russo è stato spremuto abbastanza e potrà solo declinare un po’. Guardiamo con attenzione ai mercati sudamericani, all’India e alla Cina che sono territori vastissimi. E ancora agli Usa dove il made in Italy ha avuto e avrà sempre un riscontro positivo».

Mi parli delle vostre macchine, immagino che l’ambito digitale occupi uno spazio interessante…
«Le nostre tecniche di stampa sono diverse, le più usate sono la rotocalco, ma impieghiamo ancora alcune tecniche tradizionali, come la stampa a tampone, che è un po’ l’antesignana della flexo. Anche la serigrafia occupa uno spazio molto importante perché fornisce una buona matericità al prodotto. Infine abbiamo la stampa digitale che è in grande evoluzione e che utilizziamo in modo piuttosto importante.
La carta da parati si è un po’ mescolata negli ultimi tempi al settore delle finte pelli e della conciatura per fornire maggiore fisicità al prodotto. Quindi non ci basta solo stampare su una bella carta patinata. Dobbiamo anche rifinire e goffrare utilizzando un mix di tanti know how che vanno dalla concia delle pelli, alla carta regalo fino alla cartotecnica. Insomma, quest’azienda racchiude in sé un bagaglio di saperi tecnologici piuttosto importanti e stratificati. Un patrimonio che intenderemo valorizzare anche nel futuro».

La bellezza è sulla carta

Cilindri per la stampa rotativa su tessuto.
Cilindri per la stampa rotativa su tessuto.

Jannelli&Volpi, nel settore della carta da parati e dei tessuti d’arredamento, ha capacità di innovare e di presidiare in maniera intelligente i mercati esteri.
Fondata nel 1961 da Oreste Jannelli con la moglie e i cognati ha conosciuto negli anni Ottanta e Novanta la sua grande espansione sui mercati internazionali riuscendo a trasferire la grande tradizione italiana nel design al settore dell’interior decoration. Dal 2005 l’azienda è interamente di proprietà della famiglia Jannelli, con la presenza di tre fratelli che ne rivestono i ruoli principali: Mauro Jannelli (presidente), Lidia Jannelli (responsabile finanziario) e Paola Jannelli (responsabile marketing e comunicazione).
La sede dello showroom milanese di Jannelli&Volpi si trova in via Melzo 7 mentre Sirpi,
 la fabbrica produttrice, ha le sue basi produttive a Peschiera Borromeo (MI) e a Tribiano (MI). L’intero gruppo occupa 175 dipendenti e nel 2014 ha fatturato 42 milioni di euro.

drupa 2016: intervista a Frank Romano

Manuel Trevisan ha intervistato Frank Romano, che tutti conoscono, quindi non ha bisogno di presentazioni…

«Anche se sono in pensione, giro il mondo e insegno – così esordisce Frank Romano – questa è la mia undicesima drupa, e io viaggio spesso perché questo è il mio modo di tenermi informato, perché è solo così che posso aiutare le persone a interpretare i cambiamenti, le aziende a capire la tecnologia e le sue evoluzioni. Mi chiede perché questa drupa è speciale?… Io credo che ogni drupa sia stata speciale, perché ognuna aveva la sua identità: due drupa fa l’inkjet ha iniziato a farsi vedere, adesso ha iniziato ad avere un peso notevole, e ha sostituire l’offset.

«Ciò che più mi ha colpito di questa drupa… anche se io mi entusiasmo per tutto… è che l’inkjet si sta adattando alle dimensioni del foglio, B1 e B2, questo ci permette di fare con macchine inkjet ciò che prima facevamo con l’offset, per esempio le macchine inkjet usate con il cartone ondulato, per l’imballaggio, l’introduzione di inchiostri per il getto d’inchiostro, che non richiedono trattamenti speciali per la carta, né carte speciali, il che rende il processo meno costoso e i nuovi software basati su sistemi cloud… il cloud sta infatti dominando ogni ambito, e l’accesso ai servizi è facilitato. Ho anche notato che l’inkjet ha raggiunto alti livelli, permettendo quindi la transizione da una presenza esigua e digitale al vasto mercato della stampa e aggredirà la quota di mercato detenuta dall’offset.

«Ancora a questa drupa ho notato che una significativa parte della tecnologia inkjet usata per l’imballaggio flessibile e scommetto che alla prossima drupa l’inkjet aggredirà la flessografia.»

Cosa ne penso di Landa?

«Landa ha una tecnologia vincente, credo che alla scorsa drupa Landa stesso sapesse che la tecnologia non era matura, ma ha voluto stupire il mercato, presentandola; a questa drupa le macchine funzionano, producono campioni che la gente può portare via con sé; la qualità è impressionante: ha incrementato la velocità di stampa ai livelli dell’offset, può stampare su ogni supporto senza bisogno di trattamenti speciali.

«Io penso che Landa abbia bisogno qualche anno di test ancora, ma quando le sue macchine saranno sul mercato, saranno una forza!»

Il lettore medio non esiste

Assemblea della Federazione della Filiera della Carta e della Grafica

«Più lettura, più comunicazione, più cultura»

Si è svolta lunedì a Milano l’Assemblea pubblica della Federazione della Filiera della Carta e della Grafica che rappresenta i comparti industriali di Assografici (grafica e cartotecnica/trasformazione), Assocarta (carta) e Acimga (macchine per la grafica e cartotecnica); una filiera che rappresenta 19.400 aziende, con oltre 170.000 addetti, un fatturato 2015 di 23,5 miliardi di euro (pari all’1,4% del PIL italiano) e un saldo attivo della bilancia commerciale di 3,8 miliardi di euro.

«Più lettura, più comunicazione, più cultura», un titolo impegnativo ha evidenziato il Presidente della Federazione Pietro Lironi aprendo i lavori e soffermandosi sul filo conduttore che unisce i tre sostantivi. «Con la lettura si comunica, si scambiano idee, ci si confronta dialetticamente e la comunicazione oggi pervade ogni nostro istante senza limiti di spazio e di tempo. Con la cultura invece si formano le coscienze, si nutre il cervello, si fanno crescere le generazioni». Come impegnative sono state le iniziative messe in campo dalla Federazione nell’ultimo anno per diffondere l’utilità e l’importanza della lettura, azioni rivolte soprattutto al mondo politico, affinché le istituzioni possano assumersi una precisa responsabilità in questa direzione, adottando efficaci misure di incentivazione e stimolo.

Con una panoramica economica sui settori rappresentati dalle Associazioni che costituiscono la Federazione il Presidente ha completato il quadro in cui operano oggi le imprese. Analizzando i singoli settori ha evidenziato che a fronte della forte caduta di fatturato e addetti dell’industria grafica, dal 2007 in poi e proseguita negli anni più recenti, si evidenzia nel 2015 una discreta ripartenza del settore cartario e cartotecnico-trasformatore e una forte crescita del settore delle macchine grafiche e per il converting.

Dal lato della domanda, fra 2007 e 2015, i consumi di prodotti culturali (libri e giornali) si sono ridotti del 35%, scendendo sotto l’1% della spesa complessiva delle famiglie italiane, mentre gli investimenti pubblicitari sulla stampa si sono più che dimezzati (-56%)! Questo in un paese, l’Italia, che sta al terzultimo posto UE per tassi di lettura. Per questo la Federazione ha proposto al Governo due iniziative di politica fiscale, per stimolare i consumi di prodotti culturali e la pubblicità sulla stampa: poter detrarre dalla dichiarazione dei redditi le spese per l’acquisto di libri e prevedere la detassazione della pubblicità incrementale.

Possiamo vivere nel mondo una vita meravigliosa se sappiamo lavorare e amare, lavorare per coloro che amiamo e amare ciò per cui lavoriamo. Lev Tolstoj

Dopo l’apertura del Presidente, tre ospiti hanno animato il dibattito, coordinato da Cristiano Militello, noto inviato di Striscia la Notizia, attore, cabarettista e conduttore televisivo e radiofonico. Paolo Mieli, giornalista, storico, scrittore, è stato Direttore del Corriere della Sera, de La Stampa e Presidente di RCS Libri; Andrea Favari, Amministratore Delegato de il Giornale, Società europea di edizioni spa e Christian Rocca, Direttore di IL, mensile de Il Sole 24 Ore.

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«Dietro a internet c’è la carta: chi produce, lo fa per la carta, e poi “quelli” del web rapinano i contenuti e li pubblicano gratis su web. La carta, quindi, non ne riceve beneficio, anzi, fa la “donatrice di sangue”» ha esordito Paolo Mieli, che ha ricordato che in passato la carta si trovò a combattere con un altro mostro, la televisione, e dopo la crisi degli anni 70-80, si è ripresa; anche allora si pensava che la TV avrebbe distrutto la carta, ma non fu così. La speranza è, ovviamente, che anche questa volta la carta non soccomba, come si dice da anni… ma ancora questo non è avvenuto.

Il web è superficiale, frettoloso, va benissimo per aggiornarsi in tempo reale, ma la depositaria degli approfondimenti resta la carta. Paolo Mieli si auspica che la filiera, oltre al bonus cultura, trovi forme di vita che non richiedano il sacrificio di “qualcun altro”, e che siano durature nel tempo, perché gli incentivi favoriscono solo i furbetti.

Anche perché, termina, nessuno si è mai sostenuto con il web: non ci sono esperienze di editori, se non casi sporadici, che sopravviva grazie al web.

Cosa stanno facendo “i vicini europei”? Christian Rocca ha portato l’esperienza del Guardian e di Le Monde.

Il famoso quotidiano britannico ha adottato la strategia del Digital First, ovvero produzione di contenuti di alto livello solo per internet: hanno avuto grande successo e sono sbarcati anche negli USA come primo produttore di news al mondo. La qualità era altissima, ma hanno fatto debiti per milioni di sterline. È un modello che non si regge in piedi dal punto di vista economico.

Le Monde, che fino pochi anni fa era sull’orlo del fallimento, è stato comprato da un gruppo di imprenditori francesi e in cinque anni, puntando sulla qualità dell’offerta giornalistica per la carta e sulla sobrietà dei contenuti hanno risollevato le sorti del quotidiano.

Qualità, brand, storia e tradizione sono secondo Rocca le chiavi per vincere. «Il futuro dei giornali è guardare il passato, tornare a come si era prima dell’avvento del web».

Il Sole 24 ore ha puntato sugli abbonamenti online, e già da tre anni c’è il sito a pagamento. «Ma il target è diverso: i nostri abbonati usano il Sole per aggiornamento professionale, sono avvocati, bancari imprenditori… quindi disposti a pagare per contenuti di qualità – dice Rocca, che conclude, senza alcun dubbio – certo è che i contenuti fatti per il web non devono avere una qualità inferiore rispetto a quelli per la carta, altrimenti non ci sarebbe nessuno disposto a pagarli».

Quali posso essere, dunque, le soluzioni per uscire dall’empasse?

Favari ha portato l’esempio del caso della sua testata, che ha copiato da un giornale tedesco: produrre nuove edizioni di libretti, tascabili, su diversi temi. Ogni settimana stampano 10.000 copie, 48 pagine che vengono vendute a 2,50 €: l’iniziativa si è rivelata un successo.

«Credo sia importante essere coerenti con la propria storia e il proprio lettore, noi de il Giornale, che siamo “forti” sulla storia, stiamo cavalcando questo filone, per esempio con la tanto discussa edizione del Mein Kamp, uscito con una collana di libri storici, che hanno dovuto ristampare»; e conclude «visto che è molto difficile inventarsi qualcosa di nuovo, ma è più facile adattare alla nostra realtà qualcosa che già esiste, esorto tutti a fare proposte in questo senso: cosa possiamo replicare in Italia, che è già stato fatto altrove?»

Un’altra proposta, di Rocca, per uscire da questa stagnazione, è fare pubblicazioni indipendenti per micro nicchie (B2C, nda): in Germania proliferano queste esperienze, su qualsiasi aspetto della vita quotidiana, c’è così la rivista per l’allevatore moderno, o la rivista sulle birre artigianali, solo per farne due esempi. «In Italia, che io sappia, non ci sono molti casi simili». Anche in questo senso la qualità deve essere alta, sono riviste con contenuti validi, ma anche fatte bene, da collezionare, con una bella carta e ottime finiture, «perché dobbiamo fare in modo che un allevatore esca di casa solo per comprare il prodotto fatto per lui». I numeri di ogni pubblicazione sono bassi, ma se mettiamo tutte queste pubblicazioni, insieme, fanno massa critica. Il lettorato è in cerca di prodotti fatti bene, di qualità, ed è disposto anche a spendere di più. E conclude «dobbiamo smetterla di dire che facciamo prodotti per il lettore medio, perché il lettore medio non esiste: il lettore medio cerca e si accontenta dei contenuti del web. Perché come dice Joseph Topolski, noto commentatore americano, rappresentante degli editori, le sorti dei giornali in carta non verranno mai sollevate dalla tecnologia, ma soprattutto, “il problema dell’editoria è che si pubblicano troppe schifezze”.

Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5.000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro. Umberto Eco

drupa 2016: intervista ad Amit Shvartz di Scodix

Amit Shvartz, responsabile marketing di Scodix, parla con Manuel Trevisan di drupa, come un’opportunità senza eguali di incontrare clienti, potenziali, ma anche amici, e di condividere la propria prospettiva del futuro.

«Il futuro della stampa si gioca in più dimensioni, non solo stampa ma anche nobilitazione: ciò che non è bello, non avrà futuro, ciò che non è bello, scomparirà. Per questo noi di Scodix ci dedichiamo a rendere i prodotti stampati speciali: dalle grandi alle piccole tirature, e siamo economicamente vantaggiosi.

La novità di questa drupa è la nobilitazione digitale nel mercato del cartone pieghevole: Scodix 106, che lavora a 4.000 fogli/ora.

Il mondo del cartone pieghevole quindi cambia: nel tempo che impiegheresti per fare il set up di una macchina analogica, con la nobilitazione digitale hai già “stampato” milioni di prodotti.

Questo per me è il successo per Scodix oggi. A drupa 2016 abbiamo più di 200 clienti che stanno muovendosi verso il finishing digitale: Scodix sta cambiando il loro business.»

E quando gli chiediamo di parlarci dell’Italia…

«We love Italy! È il Paese del design, della bellezza: abbiamo già installato sistemi Scodix dal nord al sud, e per noi è un mercato strategico. Gli stampatori italiani capiscono ciò che è bello, cercano il bello, e per questo noi di Scodix troviamo terreno fertile per i nostri sistemi: lavoriamo bene in Italia, grazie al nostro partner, Heidelberg, e siamo certi che il business crescerà.»